Introduzione
daniela cantone, fiorella pascale langer

In un periodo in cui la psicoanalisi, attenta alla nuova “clinica del vuoto”, si concentra sempre più sulla prima relazione madre-bambino, riprendere il pensiero di R. Britton, psicoanalista della Scuola Inglese post-kleiniana, ci offre l’opportunità di sottolineare l’importanza della triangolazione nello sviluppo psichico. Anche quando l’origine del disagio dei nostri pazienti è sicuramente da ricercare nel primo rapporto con la madre è fondamentale non perdere di vista i precoci meccanismi di difesa dalla triangolazione.
Prima di introdurre alcuni dei concetti principali del pensiero di R. Britton illustriamo due vignette cliniche significative della difficoltà dell’analista a vedere nel processo di triangolazione pazienti di cui si tende a cogliere soltanto il bisogno di contenimento e stabilizzazione.
La paziente, che chiameremo N., è una giovane donna tormentata da un profondo senso di insicurezza, una sensazione di incompiutezza e insoddisfazione  che le rende greve ogni impegno lavorativo, una difficoltà a esprimersi creativamente perché continuamente dubbiosa sui suoi reali desideri. Attraversa periodi di ansia devastante, durante i quali manifesta un bisogno estremo di contenimento che solo la madre le offre. Per questo motivo è in trattamento con antidepressivi e ansiolitici. Figlia unica, la madre è una persona energica e volitiva, da lei vissuta come indispensabile nei momenti bui, una presenza con connotati di idealizzazione e persecuzione, che tende a escludere gli altri dal loro rapporto, in qualche modo la vera coppia sembra rappresentata da madre e figlia, mentre il padre rimane molto sullo sfondo.
La seduta riportata cade in un periodo in cui la paziente esprime molti dubbi sulla efficacia del lavoro analitico e dell’analista. Racconta di essere arrivata un po’ in anticipo e, nell’attesa, di essersi chiesta se avrebbe potuto incontrare il/la paziente precedente. In effetti ha visto uscire dal palazzo una persona che ha pensato potesse esserlo. Era una ragazza molto curata nell’aspetto, con begli abiti e capelli che sembravano appena fatti dal parrucchiere, del tutto diversa da lei, che si sente dimessa e trascurata nell’aspetto esteriore. In realtà N. è una ragazza molto carina e vestita con gusto, per nulla trasandata; la terapeuta riflette tra sé sul fatto che è la prima volta che accenna a un altro paziente, come se finora l’esistenza di altre persone di cui la psicoterapeuta possa occuparsi non l’avesse mai sfiorata, anche quando è stata sollecitata in tal senso. Figlia unica come paziente unica? N. prosegue dicendo che si è sentita a disagio nel confronto, ed ha pensato che forse l’altra stia anche facendo un lavoro terapeutico migliore del suo, che sia più brava di lei, le viene da piangere nel dirlo, aggiunge, ma è così stanca di avere dei dubbi su tutto. A quel punto la terapeuta pensa che N. si stia confrontando con la necessità di tollerare un genitore imperfetto, e riporta il suo disagio al rapporto con un’analista/madre, non abbastanza contenente, non abbastanza brava da aiutarla a comprendere ed elaborare le sue difficoltà.
Discutendo il materiale nel gruppo di studio e di intervisione1 si nota come la psicoterapeuta abbia tralasciato di sottolineare i sentimenti di gelosia e di esclusione rispetto al terzo, per restare sul rapporto a due, con la madre, con lei. E dire che era stato il primo pensiero che le si era presentato, prima di essere sopraffatta dalla identificazione proiettiva che la portava a sentirsi lei l’analista incapace, la madre mai sufficientemente contenente, restando sempre nella relazione duale. Possiamo dire che il gruppo abbia funzionato da spazio triangolare, consentendo alla psicoterapeuta di cogliere il fatto nuovo, con la sua valenza edipica, che la paziente stava portando.
Il secondo paziente, che chiameremo P., racconta alla sua psicoterapeuta che è stato ad Amsterdam e non è riuscito ad avere un rapporto sessuale con una prostituta, non ce la faceva ad eccitarsi. Pensava a tutta la falsità del desiderio della prostituta e ai film porno che vede di frequente: lui sa bene che tutto è falso e costruito! Perciò non è successo niente tra loro, ma hanno parlato e questo gli ha fatto bene. La psicoterapeuta utilizza questo racconto per mostrargli il suo desiderio di un legame affettivo sincero: non essersi eccitato era forse il segno del non volere un rapporto sessuale con una prostituta, bensì con una ragazza che lo potesse desiderare davvero e per amore. Solo in un secondo momento capisce che, da una parte lo ha protetto maternamente dall’esperienza frustrante di non avercela fatta neppure con una prostituta, dall’altra forse, ha preferito vederlo come un bambino che deve essere aiutato ad interiorizzare un’immagine migliore di sé, piuttosto che avvicinarsi alle fantasie che gli dovevano far sentire pericolosa ed angosciante la possibilità di eccitarsi. Durante la seduta comunque P. appare visibilmente sollevato, ma la settimana successiva è ancora piuttosto depresso. Solo successivamente la psicoterapeuta, aiutata dal gruppo di studio e di intervisione, si chiede se non fosse lei la prostituta nei confronti della quale P. non può lasciare emergere i suoi desideri e la sua eccitazione colpevole attestandosi invece su uno scambio difensivamente intellettualizzato. Ha visto il bisogno di contenimento ma non gli ha rimandato il transfert erotico negativo. Pochi giorni dopo, P. racconta di non capire come i suoi amici possano avere il coraggio di avere rapporti sessuali senza preservativo “non hanno paura di prendere qualche malattia?” ed ancora le confessa di temere, pur eccitandosi all’idea di masturbare oralmente una ragazza, di poter perdere l’eccitazione sentendo il cattivo odore del genitale femminile.
Il pensiero di Britton ci sembra sottolinei la possibilità di ricorrere a scelte difensive che possono esitare in quadri psicopatologici differenti più o meno gravi ma sempre caratterizzati dal rifiuto di quegli aspetti della realtà che pongono il bambino di fronte all’Edipo, anche se nella sua versione più arcaica, e quindi alla triangolazione.
Nel pensiero di Britton lo sviluppo psichico fin dalle prime fasi è visto all’interno di una cornice triangolare. Anche quando il disagio riguarda una mancanza nel primo rapporto con il materno, secondo l’Autore non sono mai assenti desideri e fantasie edipiche anche se in qualche modo bloccati e impregnati di persecutorietà primitiva. Egli parla di triangolo familiare primario alludendo all’Edipo precoce della Klein, ma con sfumature diverse, derivate soprattutto dalle influenze del pensiero di Bion, Rosenfeld e Steiner. Usa una metafora spaziale per descrivere il mondo interno e, nell’analizzare i tanti casi clinici che cita nei suoi lavori, coglie il modo in cui i pazienti si pongono rispetto al triangolo osservando la loro capacità di occupare quella che lui chiama la terza posizione.
Per arrivare a teorizzare l’importanza cruciale della terza posizione nel triangolo psichico, l’Autore si è riferito alla teoria di Freud, al pensiero di M. Klein, di Bion, di  Rosenfeld e di Segal soprattutto, ma il suo concetto di spazio triangolare e terza posizione, come lui stesso sottolinea, è stato enfatizzato anche da analisti di scuole diverse. Per esempio da J. Chasseguet-Smirgel quando ha descritto le organizzazioni narcisistiche anali e perverse e le ha messe in correlazione con il rifiuto della relazione sessuale dei genitori (1974; 1981). Anche la teoria Lacaniana (Lacan, 1973) quando descrive le Simbolique come mondo del padre in contrasto con l’Immaginaire mondo condiviso dalla madre ricorda i concetti brittoniani. Egli stesso scrive: “Il fatto che idee provenienti dalla pratica psicoanalitica della scuola kleiniana inglese conducano a formulazioni teoriche che assomigliano a quelle della scuola francese, con tutta la sua diversa tradizione, mi sprona a pensare che tali teorie possano corrispondere alla realtà clinica”. (Britton, 2000, p. 70).
D’altra parte una caratteristica di Britton sta nella sua capacità di creare collegamenti tra concetti di vari autori, anche appartenenti a scuole diverse, di ripensarli e combinarli aggiungendo sempre un significato nuovo e originale. Concordiamo con Gilli e Fregonese che nella Prefazione all’edizione italiana dell’opera Credenza e immaginazione (Britton, 2000) scrivono: “I contributi originali sono molti, ma anche quando gli argomenti sono noti capisaldi della teoria psicoanalitica, come nel caso del complesso di Edipo, della teoria bioniana di contenitore/contenuto, della concettualizzazione di Ps-D, vengono elaborati da punti di vista che ne ravvisano aspetti innovativi e ne tracciano sinergie inedite con altre nozioni affini” (Britton, 2000, p. 6).
Il primo saggio dal titolo “Le difficoltà di accesso alla terza posizione” di Maria Buongiovanni, Manuela Candido, Daniela Cantone, Giovanna Maria D’Amato, Susanna Messeca e Fiorella Pascale Langer presenta alcuni temi-chiave del lavoro teorico e clinico di R. Britton. Le autrici riflettono sull’importanza degli scenari edipici, sul problema della triangolazione e sulla possibilità di accesso a quella che l’Autore definisce terza posizione collegata al concetto dell’altra stanza come luogo che nella vicenda evolutiva può divenire spazio di immaginazione, di creatività e di conoscenza o teatro di scenari terrorizzanti e catastrofici da cui difendersi con modalità diverse. Descrivono alcune situazioni psicopatologiche nel loro delinearsi proprio a partire dal sessuale edipico e dal suo ineludibile intrecciarsi con la posizione depressiva. Ancora, mostrano come la vicenda edipica, paradigma della triangolazione, trovi nella relazione di transfert e controtransfert una grande risorsa di comprensione e trasformazione.
Il secondo saggio intitolato “Sto facendo la voce da piccola? Difficile accesso alla triangolazione in una bambina di otto anni”, di Maria Buongiovanni, illustra una terapia durata circa cinque anni con una paziente arrivata alla consultazione all’età di otto anni. I problemi lamentati apertamente dai genitori riguardano difficoltà alimentari e di deglutizione, ma già dalla consultazione emerge una regressione nelle capacità di apprendimento, un blocco nelle capacità di sublimazione (canto e disegno) ed una tendenza a ritirarsi in fantasticherie romantiche. Uno dei sintomi più gravi, però, viene fuori nel corso del trattamento ed è relativo a fantasie allucinatorie, in cui la bambina sembra avere una visione in cui ha un rapporto sessuale con il padre o con Gesù. La situazione per molti aspetti si presta ad illustrare ciò che Britton descrive a proposito dell’intreccio tra posizione depressiva e superamento dell’Edipo quando le fantasie persecutorie relative alla scena primaria non riescono a trasformarsi in rappresentazioni mentali distinte dalla realtà ed a perdere il loro carattere concreto. Immediatamente sembra individuarsi un collegamento tra le difficoltà della bambina e quelle della coppia genitoriale incapace di tutelare il proprio spazio intimo e di lasciare “fuori della stanza” mentale e fisica il loro bambino interno e la bambina reale. Né i genitori, né la figlia sembrano farcela ad occupare la terza posizione descritta da Britton e la psicoterapeuta avverte nel controtransfert questa difficoltà sentendo il rischio di una confusione con G. che riproduce il modello confusivo offertole dalla coppia dei genitori. La psicoterapeuta avverte la difficoltà a mantenere l’altra stanza nella sua propria mente, preservando una posizione terza rispetto a G., difficoltà che la  spinge a cercare una posizione triangolare nel confronto con il gruppo di studio e intervisione. È tratteggiato attraverso brevi flash il lungo e non facile percorso che permette a G. di uscire dalla confusione, collocando le fantasie allucinatorie nella stanza dell’immaginazione e di ritirare le massicce identificazioni proiettive che la tenevano imbrigliata e confusa nel rapporto con la coppia genitoriale.
Il terzo saggio è la traduzione per il lettore italiano di un’intervista che R. Britton rilasciò nel Novembre del 2010 presso l’Istituto di Psicoanalisi di Londra (Britton, 2013). La traduzione dell’intervista dall’inglese e la sua riduzione sono a cura di Manuela Candido, Gabriele Hein, Susanna Messeca. In essa l’Autore racconta dei suoi esordi nella psicoanalisi, dell’ambiente psicoanalitico degli anni ‘70 in cui cominciò a praticare l’analisi e dei suoi training alla Tavistock Clinic e all’Istituto Britannico di Psicoanalisi. Ebbe come supervisori Hanna Segal, Betty Joseph e Herbert Rosenfeld, di cui descrive le differenze dell’approccio clinico pur all’interno di un background teorico condiviso. Questi illustri psicoanalisti hanno influenzato senza saturarlo il suo pensiero, capace di ampliare la teoria psicoanalitica. Nella lunga intervista, che qui viene presentata in una forma leggermente ridotta, risponde a domande provenienti dal pubblico sull’eventualità che modelli teorici diversi possano influenzare l’efficacia del trattamento e sulla peculiarità del training e del lavoro di analista. In ogni analisi, sostiene, bisogna trovare un modello per comprendere il paziente. Non esiste un modello prestabilito per capire, ci vuole tempo. Le risorse di un analista sono fortemente influenzate dai modelli teorici a disposizione per cui fa differenza quali modelli vengono utilizzati ma sempre, sottolinea, bisogna essere consapevoli della tendenza, e del rischio, aggiungiamo noi, a usarli come emanazioni del Super-io, piuttosto che in funzione dell’Io.
Descrive, infine, le qualità che un analista deve avere: tollerare di non capire, anche per un lungo periodo; un modo di pensare intuitivo e di comprendere in modo simbolico; essere a proprio agio nell’assumere la posizione dell’osservatore partecipante, nel pensare a e nell’osservare un tale scenario, un campo emozionale che coinvolge l’analista stesso; la curiosità; la tolleranza; il supporto emotivo. E ancora, la capacità di avere una vita al di fuori della stanza di analisi, per supportare la vita al suo interno e la tensione sempre viva a comprendere il paziente nel suo peculiare contesto analitico e nel suo peculiare modo di essere in analisi.
Giovanna Maria D’Amato è l’Autrice dell’ultimo saggio dal titolo “L’altra stanza”. Sogno e immaginazione in un racconto di Alice Munro. L’autrice prende spunto da un racconto di Alice Munro, “Il sogno di mia madre”, per ritornare su alcuni concetti già trattati nella parte teorica ed altri nuovi del pensiero del nostro autore. Riprende ciò che Britton stesso riconosce nell’arte, riferendosi a quanto Freud e più tardi la Klein avevano sostenuto circa la capacità dell’opera artistica di portare nel mondo esterno ciò che è del mondo interno, dando voce e rappresentazione alle fantasie inconsce e così prestandosi ad essere, come il sogno, un canale privilegiato per comprendere il nostro mondo interno. Giovanna Maria D’Amato sottolinea come Britton  ci aiuti a pensare a quanto la triangolazione abbia a che fare anche col pensiero creativo e scrive: “la stanza psichica in cui si colloca l’immaginazione è la stanza della scena primaria”; perché ci sia lo spazio mentale dell’immaginazione è necessario che sia tollerabile che esso contenga cose che non si possono vedere nella realtà, ma solo immaginare. Il racconto parla di un sogno e per questo l’Autrice fa un breve sorvolo sulla funzione del sogno secondo Freud e Bion, collegandola a quanto afferma Ogden sull’insight, per arrivare a ciò che formula Britton sulla capacità di elaborare un pensiero autoriflessivo. La capacità di riflettere su se stessi è possibile quando si è capaci “di porsi in una posizione terza da cui osservare se stessi nella relazione con un altro”. Nel racconto il sogno sembra svolgere questa funzione permettendo ad una giovane madre di osservarsi nel suo rapporto con la bambina neonata uscendo così da un legame fortemente persecutorio con lei. Giovanna Maria D’Amato, seguendo il pensiero di Britton, permette di comprendere come il passaggio da Ps a D, implichi contemporaneamente anche l’elaborazione della scena edipica. Il pianto reale, inconsolabile della bambina evoca la scena primaria attivando nella madre sentimenti di odio, di esclusione, di irraggiungibilità che la spingono, nella realtà, ad addormentare la neonata grattandole nel latte una piccola quantità del sonnifero che lei stessa prende per addormentarsi ed evadere dalla realtà vissuta persecutoriamente; da questo sonno indotto però, nascerà il sogno angosciante ma elaborativo e maturativo.
Nel presente focus poniamo l’attenzione sul concetto di “terza posizione” e sui fallimenti di accesso ad essa descrivendo la formulazione dell’autore sulle “illusioni edipiche” e sulle “organizzazioni patologiche”, ma vogliamo anche sottolineare al lettore che Britton ha ripreso in modo originale capisaldi del pensiero psicoanalitico come lo spazio transizionale di W. quando assume la qualità di rifugio psichico, o il concetto di credenza riguardante l’analisi dello stato delle fantasie inconsce nella mente dell’individuo a seconda che esse siano considerate come fatti, probabilità o semplici fantasie; e ancora la relazione tra soggettività e oggettività; ma riteniamo, in conclusione, che il comune denominatore del suo pensiero sia la capacità di analizzare ogni passaggio dello sviluppo alla luce dell’incontro con il triangolo edipico primitivo.
Bibliografia
Britton R (2000). Credenza e immaginazione. Trad. it., Roma: Borla, 2006.
Britton R (2013). Meeting Ron Britton. Institute of Psychoanalysis UK Audio Video Project, 1(1):2.
Chasseguet-Smirgel J (1974). Perversion, idealisation and sublimation. International Journal of Psycho-Analysis 55: 349-57.
Chasseguet-Smirgel J (1981). Loss of reality in perversions - with special reference to fetishism. Journal of the American Psychoanalytic Association 29:511-34.
Lacan J (1973). Le séminaire de Jaques Lacan. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychoanalyse. Trad. it., Torino: Einaudi, 1979 e 2003.
Munro A (1998). Il sogno di mia madre. Trad. it., Torino: Einaudi, 2000.



Daniela Cantone
Psicoterapeuta, Membro Ordinario AIPPI
Ricercatore di Psicologia Clinica nel
Dipartimento di Psicologia dell’Università
degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

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Fiorella Pascale Langer
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