Discussione dell’articolo
di Geneviève Haag: “Contributo della
clinica psicoanalitica dell’autismo
alla conoscenza della strutturazione
dell’Io corporeo - Creazione dello
strumento ECPA”
suzanne maiello



Geneviève Haag ha un dono molto speciale, quello di comunicare agli ascoltatori, attraverso dei percorsi di pensiero chiari pur nella loro complessità, l’essenza delle sue riflessioni. Nella sua relazione si intrecciano sapientemente una capacità osservativa di rara precisione, il dono di tradurre la sua esperienza in un linguaggio minuziosamente descrittivo eppure fortemente evocativo, e infine la sensibilità empatica che le permette di trarre dal materiale clinico dei piccoli pazienti autistici la trama significativa. Da quell’intreccio l’autrice trae un modello metapsicologico al tempo stesso di grande profondità e di immediata utilità nel lavoro terapeutico quotidiano con bambini con autismo.
Geneviève Haag scrive: “L’Io corporeo comincia con un primo sentimento di involucro che si costruisce in particolare con l’integrazione di un aspetto tattile, e soprattutto del tattile profondo del contatto della schiena, alleata alla penetrazione dello sguardo”. Con poche parole viene evocata l’immagine di un contenitore, insieme ad una spontanea consensualità tra tatto e sguardo. Il congiungimento di queste precocissime esperienze disegna alcune delle forme primodiali dell’esistere. La formulazione di Haag evoca il concetto dell’Io pelle di Didier Anzieu (1985) e contemporaneamente la concezione spaziale della vita psichica proposta da Donald Meltzer (1975, 1990). Nel concetto stesso di involucro, del “tattile profondo” e della “penetrazione dello sguardo” si annuncia il potenziale emotivo della tridimensionalità psichica. Sappiamo che la percezione dell’involucro, del contenimento, affonda le radici nella vita prenatale, verso la fine della quale la schiena del bambino è solidamente appoggiata alla parete uterina che gli si stringe attorno. Grotstein (1981) ha coniato il concetto dell’“oggetto di sfondo dell’identificazione primaria” (Background Object of Primary Identification). È l’oggetto-appoggio, l’oggetto-sostegno, e al tempo stesso l’oggetto-limite, ossia l’oggetto che determina il confine.
Ricordo lo strano, e in un primo momento incomprensibile, comportamento di una bambina di circa due anni, nata pretermine alla trentesima settimana. Quando correva contenta incontro ad un adulto che era felice di rivedere e che le tendeva le braccia per accoglierla, la bimba si voltava all’ultimo momento e si appoggiava con la schiena alle gambe del visitatore, facendosi avviluppare da dietro dalle sue braccia. Che avesse avuto bisogno di recuperare l’esperienza di quel sostegno della schiena che non aveva avuto il tempo di esperire per un tempo sufficiente durante la vita prenatale? In modo da rafforzare quell’oggetto di sfondo dell’identificazione primaria rimasto incompiuto nel suo mondo interno per la perdita prematura di quell’appoggio?
Nel pensiero di Geneviève Haag (2000), il concetto di sfondo (arrière-plan) occupa un posto di grande rilievo. L’internalizzazione dello sfondo sperimentato con la schiena a livello tattile durante la vita prenatale e rafforzato dal sostegno delle braccia materne postnatali potrebbe contribuire allo sviluppo di una fiducia di base e al tempo stesso convoglierà l’esperienza dell’esistenza di un limite. In un primo momento, l’oggetto di sfondo non è probabilmente vissuto come limitazione (significato che potrà acquisire in stadi successivi dello sviluppo dell’io), bensì essenzialmente come sostegno, come garanzia contro il pericolo di liquefazione in uno stato psico-fisico in cui manca ancora una struttura interna in grado di proteggere l’individuo dal terrore della caduta senza fine.
E qui nasce l’intreccio, nella formulazione di Geneviève Haag, tra la sensorialità dei sensi di contatto (il tatto, ma anche il gusto e l’olfatto) e la sensorialità a distanza, dello sguardo, e in altri esempi anche dell’udito. Il carattere penetrativo dello sguardo (nelle due direzioni, ossia di chi guarda e di chi viene guardato) incontra quel limite, quello sfondo che lo fa ritornare indietro e lo protegge dallo sperdimento. È qui che avviene l’integrazione tra sensorialità materiale e immateriale, nel gioco psico-fisico reciproco tra il sé che cerca e trova l’altro, e il sé che fa l’esperienza di essere visto e sostenuto dall’altro, il gioco dinamico dell’andare e ritornare, della ritmicità di ogni esperienza interpersonale e intrapsichica. È qui che nascono lo sfondo di sicurezza (Sandler, 1960) e il ritmo di sicurezza (Tustin, 1986) e che si crea lo spazio esperienziale indispensabile per la crescente capacità di modulare le emozioni.
Per descrivere questo movimento di andata e ritorno, Geneviève Haag usa il termine di boucle de retour, difficilissimo da tradurre in italiano. La boucle può essere un’ansa, un anello, un meandro, e, in termini più astratti, un circuito. È così che il concetto è stato tradotto nei testi pubblicati in Italia. È quel movimento ellittico che compie il piccolo Bruno con la sua camminata: un movimento che parte da un centro (il luogo in cui si trova la terapeuta), raggiunge la parete, torna indietro per poi disegnare altre ellissi nello spazio, a ventaglio, e creare una specie di “forma plastica”. Il bambino, che era autistico, può ormai osare, nel terzo anno della sua psicoterapia, esplorare lo spazio, andare, voltarsi e ritornare, alternando le sue camminate allo sguardo che si tuffa negli occhi dell’altro e a sua volta torna indietro senza più perdersi. Il movimento centrifugo non porta più alla dispersione, ma è il preludio per il contromovimento centripeto. Il bambino è in grado ormai di modulare la distanza e la vicinanza, sia fisica che emotiva. Ma non solo. Egli è anche in grado di trasporre in modo unimodale l’ideogramma dell’ellissi dalla modalità cinestesica alla modalità visiva. Lo smantellamento sensoriale (Meltzer, 1975), ossia la dispersione autistica dei sensi viene contrastata dal bambino da un’esperienza attiva di consensualizzazione. È così, attraverso delle forme sensoriali e cinestesiche, che si forma gradualmente l’esperienza del bambino di essere il suo corpo (l’io corporeo), di avere un corpo (poterlo usare per fare esperienze) e di abitare nel suo corpo (esperienza di contenimento) (Maiello, 2014). 
Tutto questo è precluso al bambino perso nella terra di nessuno degli stati autistici. Bruno scoprirà poco per volta durante la psicoterapia l’esistenza del suo corpo nello spazio e nel tempo, e prenderà dentro di sé in piccolissime dosi le esperienze che gli permetteranno di attuare le integrazioni che il guscio autistico gli ha impedito di fare. Abbiamo assistito, nel periodo iniziale della psicoterapia di Bruno, all’insostenibilità dell’esperienza dello spazio tridimensionale e al suo ridiventare ‘facciata’ bidimensionale dopo un’esperienza di scambio, fino a perdersi in uno stato di invisibilità.
Particolarmente incisivo e significativo mi pare il termine di sfinterizzazione usato da Geneviève Haag. La sfinterizzazione rappresenta un momento cardine, il momento di transizione in cui il bambino scopre di poter incidere sulla realtà, di avere il potere di scegliere tra un’apertura e una chiusura, il ché implica l’esperienza di un dentro distinto da un fuori, di un movimento distinto dalla staticità dell’autismo. Il prezzo però è alto: la rinuncia allo stato psico-fisico ‘liquido’ o congelato grazie al quale ogni senso di separatezza veniva obliterato. Il processo verso lo scongelamento psichico, senza che si ripresentino in modo massiccio i fantasmi di liquefazione e di dispersione è inevitabilmente lungo. Il bambino ha bisogno di ripetute microesperienze di solidificazione del sé corporeo e psichico, senza ritrarsi più dal terrore delle conseguenze di una separazione catastrofica.
Con la piccola Paula, Geneviève Haag ci dà un altro esempio di una bambina autistica che può cominciare a fare, nel corso della psicoterapia, delle esperienze di consensualizzazione, anch’esse sempre legate ad una inversione della direzione del movimento interno, il quale, da difensivamente centrifugo, può diventare centripeto. Il velo della tenda, percepito nella sua qualità tattile, ma anche mosso come involucro dinamico, suscita vocalizzazioni, una “tessitura del sonoro”, dice Geneviève Haag. Al tempo stesso, la bambina esplora la possibilità di modulare, attraverso la tenda, la presenza e l’assenza della terapeuta, e infine alterna l’esperienza dello sguardo-nello-sguardo con la scoperta di un’attenzione congiunta verso un oggetto terzo. Si formano nuove ‘geometrie’ sottili e fugaci che testimoniano del disgelo dell’immobilismo o della ‘liquidità’ dello stato autistico e mostrano come appaiono, seppure momentanei e passeggeri, dei tentativi di collegamento e di integrazioni sensoriali a livello contemporaneamente interpersonale e intrapsichico.
Infine con la storia di Arielle, Geneviève Haag ci fa seguire il percorso di una bambina che ha bisogno inizialmente di prevenire ogni pericolo di comparsa di angosce di separazione e di annientamento, dissolvendosi negli interminabili travasi di acqua. La relatrice sottolinea la recrudescenza di movimenti di autoprotezione autistica proprio nel momento in cui le separazioni cominciavano ad essere percepite, con le profonde angosce esistenziali che le accompagnano. Il passaggio dall’acqua ai riflessi di luce lontani e poi alla solida carta blu che assume varie forme (cono tridimensionale) e varie funzioni (tettarella da mordicchiare), testimonia del ‘solidificarsi’ degli oggetti interni della piccola paziente, del passaggio dall’oggetto autistico scelto per le sue caratteristiche esclusivamente sensoriali, e pertanto intercambiabile a volontà, ad un oggetto apprezzato nella sua unicità e accettato nella sua impermanenza (la bambina lo trova al suo arriva e lo lascia alla fine della seduta).
Con le riflessioni intorno all’area orale, Geneviève Haag ci mostra come la ‘cavità primitiva’ (Spitz, 1959) sia il teatro nel quale si gioca a livello di oggetto parziale tanta storia di questi bambini. L’orifizio ‘buco nero’ o pozzo senza fondo ci parla dell’angoscia di precipitare all’infinito, il succhiarsi la lingua evoca l’oggetto autistico che illusoriamente protegge dalla mancanza e tappa il buco, e l’’amputazione delle labbra’ ci ricorda la potente resistenza contro il pericolo rappresentato dalla sfinterizzazione. È straordinario vedere come la bambina, contenuta nello sguardo e nell’attenzione della terapeuta, scopre le proprie labbra e l’uso esplorativo che ne può fare, come rinuncia alla lingua-tappo e porta invece alla bocca il cono-tettarella della terapeuta, con un chiaro intento incorporativo. Laplanche e Pontalis (1967) ci insegnano che l’identificazione primaria è accompagnata da una fantasia di incorporazione. Tuttavia, aggiungo, non esistono i presupposti per l’identificazione primaria senza un barlume di percezione di separatezza. Ed è proprio in quell’assetto mentale che anche l’identificazione proiettiva può cominciare ad avviarsi. Arielle ci mostra come la scoperta e la ‘costruzione’ del proprio viso vada di pari passo con la scoperta del viso dell’altro-da-sé, nella circolarità e reciprocità degli sguardi.
Per concludere, vorrei ritornare all’inizio della relazione e fare una breve riflessione sull’approccio psicoanalitico e la sua efficacia nella terapia dei piccoli pazienti autistici. Geneviève Haag ha esordito affermando che la sua pluridecennale esperienza di lavoro con questi bambini ha mostrato l’efficacia del metodo, a patto che venga rivista e estesa la concettualizzazione classica sia del transfert che del controtransfert. Il bambino autistico non ‘trasferisce’ niente nel senso che tradizionalmente diamo al termine in quanto non ha accesso all’identificazione proiettiva che rappresenta il principale mezzo di comunicazione inconscia sia del bambino fin dalla nascita che del paziente non-autistico in analisi. Nel lavoro con i bambini dello spettro autistico, è la capacità di recettività controtransferale dello psicoterapeuta che deve pertanto estendersi, approfondirsi, sopperire all’assenza del normale flusso proiettivo transferale. Diventa ancora più essenziale la sua capacità osservativa dei più minuti dettagli della corporeità e sensorialità del bambino e del suo porsi, o piuttosto del suo non porsi, nelle dimensioni dello spazio e del tempo. Geneviève Haag descrive come nell’esporsi agli stati psico-fisici di questi bambini, lo psicoterapeuta possa essere invaso da noia, stanchezza, senso di isolamento, vertigini, stati non-pensabili, i quali vengono recepiti direttamente nel suo corpo tramite una forma di ‘diffusione o di contaminazione adesiva’ con un effetto spesso paralizzante. È proprio ciò che vorrebbe perpetrare lo stato autistico: mantenere uno stato sempre identico a se stesso, in cui non esiste differenza tra sé e l’altro, al fine di prevenire ogni cambiamento, temuto come inevitabilmente catastrofico.
Come fare ad accogliere questo bisogno del bambino di congelare il mondo, di perdersi in attività stereotipate ripetute all’infinito, e rimanere malgrado tutto vivi, senzienti e pensanti? Quando intervenire, quando diventare il compagno vivo (Alvarez, 1992) che introduce quel tanto di cambiamento e di ‘emozionalizzazione’ che il bambino può sopportare in un dato momento senza doversi ritirare nuovamente nel guscio? È questa una delle sfide del lavoro terapeutico con questi stati profondamente trincerati nell’assenza.
Geneviève Haag ci ha portato il suo ricco materiale clinico, ci ha portato la sua riflessione sulla tecnica psicoanalitica e le sue indispensabili estensioni nel lavoro con i bambini dello spettro autistico. Uno dei suoi grandi meriti, oltre alla capacità di comunicare il suo pensiero originale con un intreccio sempre fecondo tra clinica, tecnica e teoria è che da qualche anno Geneviève Haag ha condiviso con alcuni colleghi un progetto teso a verificare in modo più sistematico l’efficacia della psicoterapia psicoanalitica con bambini dello spettro autistico. In un lungo lavoro preparatorio è stata elaborata a tal fine la griglia ECPA (Evaluation des Changements Psychodynamiques dans l’Autisme), griglia che è stata utilizzata come una delle scale di valutazione nella ricerca internazionale INSERM (si veda il Focus pubblicato in Richard e Piggle “La psicoterapia psicoanalitica con bambini dello spettro autistico alla verifica della ricerca internazionale INSERM”, 2013).
Grazie, Geneviève Haag, per il contributo prezioso che apre nuove vie verso un ulteriore approfondimento della nostra comprensione degli stati autistici.
Bibliografia
Alvarez A (1992). Il compagno vivo. Trad. it., Roma: Astrolabio, 1993.
Anzieu D (1985). L’io pelle. Trad. it., Roma: Borla, 1994.
Grotstein JS (1981). Who is the dreamer who dreams the dream and who is the dreamer who understands it? In: (Grotstein, J.S. ed.) Do I dare disturb the Universe? London: Maresfield Library.
Haag G (2000). Le moi corporel. In: Geissmann C. et Houzel D., sous la direction de, L’enfant, ses parents et le psychanalyste. Paris: Bayard.
Laplanche J, Pontalis J-B (1967). Identificazione primaria. In: Laplanche J, Pontalis J-B, Enciclopedia della psicoanalisi. Trad. it., Bari: Laterza, 1968.
Maiello S (2014). NO-BODY. Sull’assenza della dimensione corporea negli stati autistici. Richard e Piggle, 22 (4): 347-364.
Meltzer D (1975). Esplorazioni sull’autismo. Trad. it., Torino: Boringhieri, 1977.
Meltzer D (1992). Claustrum - Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Trad. it., Milano: Cortina, 1993.
Sandler J (1960). The background of safety. Int.J. Psycho-Anal., 41: 352-356.
Spitz R A (1955). La cavità primaria: un contributo alla genesi della percezione e al suo ruolo nella teoria psicoanalitica. Trad. it., Dialoghi dall’infanzia. Raccolta di scritti. Roma: Armando, 2000.
Tustin F (1986). Barriere autistiche nei pazienti nevrotici. Trad. it., Roma: Borla, 1990.



Suzanne Maiello
Past President e Membro Didatta AIPPI
(Associazione Italiana di Psicoterapia
Psicoanalitica dell’Infanzia, dell’Adolescenza
e della Famiglia), Membro ordinario ACP
(Association of Child Psychotherapists)

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