Dolor y gloria
giovanna maria d’amato



Qual è il primo desiderio del protagonista dell’ultimo film di Almodovar, deliziosa commedia tra nostalgia e riparazione? Dolor y gloria, premiato al festival di Cannes 2019, ha molto di autobiografico, dal paese d’infanzia in cui Pedro Almodovar è cresciuto, alla crisi psicofisica che prende Salvador, il protagonista del film, un regista non più giovane bloccato nella creatività, gravato da una serie di acciacchi fisici che sembrano avere molto di psicosomatico e che sono significativamente aumentati dopo la morte della madre. Sembra che Almodovar in questo film voglia fare i conti con la vita, con la vecchiaia, l’angoscia di morte, la paralisi del desiderio che si traduce in blocco creativo, e il dolore dell’anima che non trova parole se non attraverso i sintomi di un corpo fragile.
È una storia di incontri e separazioni, che sono poi l’ordito su cui è tessuta la vita di tutti, e di ritorni che sembrano avere la funzione di processi elaborativi, dolorosi e benefici. La attività pubblica di Salvador è ferma da anni, ma non è lo stesso per la produzione privata: infatti Salvador in segreto ha continuato a scrivere racconti e sceneggiature. La storia ruota intorno ad uno di questi scritti, che un amico dei vecchi tempi, un attore eroinomane, anche lui in crisi lavorativa a causa della droga, legge per caso e insiste perché Salvador gli consenta di interpretarla sulla scena. L’occasione che ha determinato l’incontro tra i due è data dal restauro di un antico film di Salvador di grande successo uscito trenta anni prima: entrambi dovranno dare un’intervista insieme e questo spinge Salvador a cercare l’antico amico con cui aveva interrotto i rapporti da anni, e poi da qui ad intraprendere una sorta di rivisitazione della sua storia. Il processo comincia con un’ulteriore caduta in basso di Salvador, che in questa fase tardiva della vita per la prima volta si consegna all’eroina, forse come ad una inesplorata via di fuga dal dolore dell’esistenza.
Lo scritto segreto che l’amico ha scoperto e che vuole portare sulle scene si chiama “La dipendenza”, ed è la storia del legame d’amore tra il giovane Salvador e il suo amante Marcelo, dedito all’eroina, che Salvador si era illuso di strappare alla droga, senza riuscirci. È la storia di due dipendenze: quella di Marcelo dalla droga e quella di Salvador da Marcelo. Un intreccio di dipendenze senza via d’uscita, che trova risoluzione solo nella rottura. A distanza di anni Salvador trova le parole per dire la storia, e mentre un attore eroinomane si ostina a portarla in scena, Salvador scivola a sua volta, dopo averla combattuta nel suo amante e rifiutata per tutta la vita, nella dipendenza dall’eroina. Viene da chiedersi: di quale dipendenza si tratta? Forse è il tentativo estremo di identificarsi con qualcuno molto amato e perduto mettendosi nei suoi panni? Ne “La dipendenza”, storia nella storia, il protagonista descrive la disperazione di chi assiste allo scempio che fa di sé una persona in preda alla dipendenza da eroina e ne svela tutta l’impotenza. Conosciamo i vissuti dei familiari di persone dedite all’uso di droghe o del gioco, dei genitori di anoressiche, e la difficoltà di un lavoro terapeutico efficace. Ogni volta si assiste all’intreccio perverso di dinamiche che legano i componenti di una coppia madre-figlia, di un nucleo familiare in cui è difficile distinguere dove cominci il legame malato che impedisce l’evoluzione, il gioco creativo dell’eros, la spinta al cambiamento e alla crescita. Salvador racconta i suoi tentativi di salvare l’amico, e nel farlo racconta anche quanto egli stesso abbia messo da parte la propria vita per conservare il legame con lui: ci viene fatto capire che questa relazione finisce in maniera dolorosa e lacerante, ma non ci viene raccontato come. Sappiamo però che Salvador ha continuato la sua vita sempre più oppresso da dolori fisici che gli tolgono l’energia per vivere, imprigionato nel corpo e nello spirito, impedito a continuare la sua attività di artista.
Il percorso dello sviluppo di ogni individuo passa attraverso un periodo di buona identificazione con un oggetto sufficientemente buono, per continuare con la altrettanto necessaria dis-identificazione da esso, che consente, attraverso un processo più o meno doloroso di separazione, il cammino della costruzione e individuazione del proprio sé autentico.
Nel film il presente, in cui assistiamo allo sfacelo del protagonista nella dipendenza dall’eroina, si alterna con la narrazione dell’infanzia di Salvador, in cui lo splendore di una madre bella e tenace, e il suo incantamento di bambino per le storie, sembrano illuminare di colori e promesse la miseria in cui sono costretti a vivere. È un alternarsi di rappresentazioni emozionali dell’oggi con quelle di ieri che hanno marcato e marcano la storia di Salvador.
Il film si apre e si chiude con una scena del passato in cui il piccolo Salvador è con la madre. Nella prima i due sono al fiume, e il bambino le sta letteralmente attaccato, a cavalcioni sulla schiena di lei, inginocchiata sulla riva, che lava i panni con altre giovani donne. Poi, dopo essere stato disarcionato, guarda incantato i gesti lievi con cui le donne stendono il bucato sui rami, mentre si danno la voce col canto e certo appaiono felici al bambino malgrado la fatica. È una scena che ha dell’onirico: le donne sembrano intrecciare danze, e si intuisce il rapimento del bambino mentre osserva la giovane madre, di una profondità che sfiora l’annientamento, mentre l’indugiare della macchina da presa sul gioco delle lavandaie, l’immobilità del bambino, troppo vicino al fiume, l’acqua che scorre e la musica che si fa inquietante, comunicano allo spettatore una sensazione di incombente pericolo. Sembra che si alluda al fascino e al pericolo, possiamo dire alla fascinazione necessaria e pericolosa del legame madre-bambino, che per continuare ad essere vitale deve procedere dopo la simbiosi per una serie di messe al mondo, per dire una serie di atti separativi.
Questa presenza materna ritorna spesso nello svolgersi della storia. La madre è la donna infaticabile che trasforma una grotta, la sola casa che il padre era riuscito a preparare per loro, in una abitazione accettabile, quasi un luogo da favola per il piccolo Salvador dalla fervida immaginazione. La madre comprende e sostiene la facilità e il desiderio del figlio di apprendere, ma sfrutterà anche la sua alfabetizzazione per ottenere dei favori in cambio: il giovanotto che tinteggerà la grotta di bianco e monterà piastrelle colorate per allietare l’ambiente lo farà in cambio delle lezioni di lettoscrittura che gli darà il piccolo Salvador; infine, nonostante la repulsione di Salvador, lo costringerà al seminario, “l’unica scuola possibile per i poveri”.
Le rappresentazioni del passato hanno i colori sanguigni dell’infanzia, un brillio di estasi e turbamenti, eccitazioni e delusioni, un quadro a cui fa da contrappunto il corpo attuale di Salvador, presente sulla scena come un ingombro malsano, pieno di cicatrici e dolori, che porta iscritta in sé la prigione emotiva e creativa in cui vive.
Alla fine lo stesso amico che lo ha iniziato all’eroina riuscirà a strappargli il consenso di portare in scena il monologo “La dipendenza”. Il passato sembra riattualizzarsi, ma stavolta Salvador riesce a dire basta, ai sensi di colpa e ai rimpianti, quindi anche al fantasma distruttivo che sta operando in lui. E quando Salvador decide di smettere con l’eroina, di curarsi, affrontare la paura della morte e affidare il suo corpo dolorante alle cure che possono guarirlo, ritrova l’energia per rimettersi a lavorare, mentre il racconto del passato scorre sulle scene di lui con la madre vecchia, ancora bella e tenace. Sono momenti in cui affiorano al di là del legame potentissimo tra loro, la rabbia e il dolore di non essere il figlio che lei avrebbe voluto, l’angoscia che le richieste di lei hanno lasciato in Salvador anche quando ha avuto la forza di dirle no: scene delicatissime dove l’amore si mescola con rabbie antiche, e i due riescono a dirsi, senza urlare, parole che sono grida di dolore. È dunque nella memoria e nella capacità di trovare parole per raccontarla che la parte sana di Salvador trova l’ultima risorsa per accettare che l’impossibile sia tale e accettare la vita. Accettare di non aver potuto salvare lui l’amico, accettare di non essere stato un buon figlio, – non sono quello che volevi – accettare la perdita, la morte.
E infine c’è, per un benevolo intervento del caso, che Almodovar mescola un po’ come un ingrediente magico, un po’ come atto di fiducia nella vita, il ritrovamento di un vecchio quadro, dipinto per gioco e chissà attraverso quante mani passato, dal giovanotto che imbiancava la grotta in cambio delle lezioni di alfabetizzazione che il bambino Salvador gli dava. E qui irrompe come un après coup la scena in cui il giovane operaio (dopo aver fatto un mirabile schizzo del piccolino seduto sulla sedia a leggere un libro, tra il bianco del muro e il rosso dei gerani) emerge dal bagno nello splendore del suo giovane corpo nudo, e un’eccitazione così intensa prende il bambino davanti a quella bellezza da fargli perdere i sensi.
Viene in mente Meltzer quando parla del conflitto estetico: “L’elemento tragico nell’esperienza estetica risiede non tanto nella sua fugacità, quanto nella qualità enigmatica dell’oggetto” (Meltzer, Amore e timore della bellezza, 1989, p. 47). Meltzer continua spiegando come sia il legame K, il desiderio di conoscere più che di possedere l’oggetto, a far venire fuori il soggetto dall’impasse tra i legami L e H (amore e odio), a promuovere lo sviluppo, la messa in moto della creatività. Perciò si chiamerà “Il primo desiderio” (El primer deseo) l’opera a cui vediamo intento il Salvador anziano che si è rimesso in cammino, e questa possibilità di trasformare in atto creativo l’evento folgorante del trauma, mi sembra venga magnificamente suggerita dalla scena finale del film, ancora una volta una scena d’infanzia, in cui allo stordimento del desiderio si sostituisce l’elaborazione dello stesso. L’amore per le storie, che prende il posto dell’amore per il corpo materno e il suo desiderio di esplorarlo, farà di lui un artista.
Ed ecco l’ultimo quadro, che sembra contenere il presagio di quello che verrà: Salvador bambino e la madre sono accampati in una stazione in attesa del treno che li porterà a Paterna, paesino della provincia di Valencia, dove realmente emigrò in cerca di fortuna la famiglia del piccolo Pedro Almodovar. La madre accomoda amorevolmente il bambino su una panchina avvolgendolo in scialli, poi si distende per terra, accanto alla panchina. Mentre si dispongono a trascorrere la notte, perché il treno arriverà solo al mattino, la giovane madre sogna la casa che li attende (non sa ancora che sarà una grotta), e il piccolo Salvador, il futuro regista, prima di addormentarsi le chiede: Mamma, ci sarà il cinema a Paterna?