La creatività nell’esperienza

clinica in tempo di coronavirus


Introduzione

angelique costis


Mala tempora currunt. Stiamo vivendo un attacco pandemico inedito e inaspettato.1 Qualcuno ha paragonato le condizioni attuali che vive l’umanità a una guerra mondiale in cui il nemico è onnipresente, estremamente pericoloso e nello stesso tempo invisibile. Regnano un’incertezza e un’inquietudine pervasive. L’elemento perturbante (Freud, 1919), cioè l’estraneo/familiare, impregna ogni vissuto e ogni situazione. È diventato reale (Lacan, 1959-1960), nel senso di qualcosa che non è stato e non può essere simbolizzato. La differenziazione e i confini tra interno ed esterno sono diventati labili, confusi e confondenti, visto che non solo l’altro è potenzialmente pericoloso per noi, ma possiamo inconsapevolmente esserlo anche noi per l’altro. La claustrofilia e l’agorafobia si intensificano, alla pari della patofobia e dei vissuti ipocondriaci, ma cresce anche il desiderio opposto, a volte quasi bulimico, di incontri e assembramenti. Anche perché il contatto corporeo, così essenziale nella relazionalità umana, viene limitato e a volte del tutto interdetto, come è accaduto nel lockdown.

Stiamo cercando di attraversare un mare in tempesta che ha precedenti, ma in scenari antropologici, sociali e culturali radicalmente differenti da quelli attuali.2 Si pone allora, un interrogativo che ritengo importante: se crediamo che il significato autentico di un vissuto si può cogliere solamente in après-coup, quando lo si rivisita conferendogli infine significato, come è possibile oggi formulare ipotesi psicoanalitiche attendibili su ciò che oggi stesso va accadendo? Lo chiedo perché noi, in questo nostro Focus, come tra l’altro risulta anche dal Focus del numero precedente della Rivista dedicato alla pandemia, siamo portatori dei nostri vissuti, delle nostre emozioni, ma soprattutto di quei valori psicoanalitici che ora sono chiamati più che mai a farci da guida, per consentirci di impostare al meglio il nostro lavoro in questo periodo particolare ed inedito. È per questo che adesso è preferibile sollevare interrogativi, piuttosto che tentare risposte. Non è ancora tempo di risposte.

Maria Luisa Algini, caratterizzando il suo testo come opus incertum, in consonanza con Giuseppe Pelizzari, fa riferimento alla figura del rapsodo (raywdòs) e all’etimologia di rapsodia (raywdìa), termine che deriva dalla fusione di due verbi che significano, l’uno, suonare, mentre l’altro, che qui particolarmente ci interessa, significa mettere assieme, ricucire. La suggestione di quest’ultimo significato rimanda all’incertezza in cui versiamo, alla nostra impellente necessità di mettere assieme, rattoppare e ricucire frammenti di pensiero sparsi, per cercare appunto di dare un senso a ciò che stiamo vivendo. Storicamente, il rapsodo, per antonomasia Omero, assemblava gli eventi di un passato remoto, proprio per consentire agli ascoltatori di riflettere su quei fatti e di elaborarli, senza che si generasse eccessiva incertezza e conseguente sconvolgimento emotivo. Lo stesso accadeva nella tragedia greca, col suo ricorso a una mitologia che allude però all’attualità e sensibilizza i cittadini nei confronti dei problemi che la polis sta attraversando. È emblematico che gli ateniesi abbiano punito con la multa di mille dracme Frinico, che fece piangere tutti presentando uno spettacolo vertente su una catastrofe troppo recente, cioè sulla presa di Mileto a opera dei Persiani. Oltre alla multa, pensarono bene di vietare anche ogni replica di quel dramma (Erodoto, V sec. a. C. VI, 21), per ribadire che, se non è trascorso un periodo sufficiente di tempo, le emozioni suscitate dall’attualità rischiano di sbarrare la strada al pensiero.

Credo che le nostre testimonianze possano essere, proprio perché fatte in tempo reale, anche paragonate alla poesia lirica, monodica e corale, che consentono di sfruttare l’attualità emotiva come riserva vitale per affrontare l’angoscia di morte. Parlo della morte non solamente fisica, ma anche della morte intesa come angoscia di separazione/interruzione/scomparsa del lavoro terapeutico con i nostri piccoli pazienti. “Bisogna rimanere vivi!” esclama Maria Brando, unendo in questa esigenza tutti noi, come testimonia anche il lavoro del gruppo. Questo forte impatto affettivo caratterizza anche la strutturazione specifica di questo Focus che rispecchia, attraverso istantanee cliniche, sia la scossa del cambiamento del setting che l’emergere dei frammenti di pensiero. La metafora suggerita da Maria Luisa Algini del vasaio dell’antica tecnica giapponese che usava l’oro per unire i frantumi dei vasi trasformando le crepe in ricami, rende molto bene la consapevolezza ma anche l’intenzione (ambiziosa?) di tutti i lavori contenuti nel Focus.

Freud, in piena guerra mondiale, scrivendo “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, ammette di non capire cosa esattamente stia succedendo e per quale ragione, considera “un vero mistero” (1915, p. 135) l’origine e l’ammontare dell’odio fra gli uomini e conclude trasformando l’antico detto latino si vis pacem para bellum: se vuoi la pace prepara la guerra, nella parafrasi “Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte” (1915, p. 148). Non denegare, cioè, il pericolo di morte, non denegarlo proprio per preservare la vita e la vitalità dell’essere. E nel “Disagio della (nella)3 civiltà”, che è successivo all’introduzione della seconda topica e della pulsione di morte, gli sembra che “[…] il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana” (1929, p. 609). Julia Kristeva, filosofa, linguista e psicoanalista bulgara, francese di adozione, in un webinar organizzato dall’IPA nel giugno 2020, ha detto: “Io sono straniera e conosco che cosa vuol dire sopravvivenza. Sopravvivere è inventare, re-inventare e re-inventarsi!”

Noi, nel lockdown imposto per arginare la pandemia, con il divieto di incontrare chiunque eccetto i familiari, abbiamo dovuto re-inventarci riconsiderando il valore della vita nel senso di ESSERE.4 In primo luogo, non sparire noi come rappresentanti della salvaguardia della salute dei nostri pazienti, e in secondo luogo non far sparire il nostro setting, confermando così l’importanza di quella continuità dell’essere della cui assenza testimoniano i sintomi dei nostri pazienti. Garantirla presuppone che si rafforzi al massimo la nostra preoccupazione materna primaria (Winnicott, 1958), fatta di devozione e identificazione sia conscia che inconscia con i loro bisogni. Non dobbiamo sottrarre ai nostri piccoli pazienti quel loro spazio vitale che è garantito dallo scambio con noi, ma dobbiamo invece confermare la presenza del nostro investimento, la sola cosa che consente loro di esprimersi. E, come ben si sa, il gioco costituisce per eccellenza il mezzo con cui i soggetti in età evolutiva scelgono di comunicare.

Il termine objeu, utilizzato da Fédida, mi sembra renda bene la posta in gioco della situazione. Fédida, traendolo dichiaratamente dal pensiero e dall’opera di Francis Ponge, sottolinea che “il jet (getto) di objet (oggetto) vi ridiviene un jeu (gioco) di objeu. Gettare non è giocare, ma l’objeu potrebbe essere un gioco da oggetto perduto (…) Quando il jet-getto è un jeu-gioco, esso è già un disegno (intento) [dess(e)in] di un balzo e di un salto. E questo disegno è quello dello spazio di un trasporto. Letteralmente metafora” (Fédida, 1978, p. 97).5

Winnicott ha denominato transizionale (Winnicott, 1953, p. 23-60) questo spazio di trasporto, questo spazio di gioco, facendone un percorso necessario per raggiungere l’oggettività dell’altro, inteso come oggetto non-me. Noi, per non gettare la spugna, per attivare e potenziare la possibilità dell’andirivieni tra noi e il paziente, per continuare a giocare al fine di istituire un ponte transizionale, abbiamo dovuto inventare quei nuovi spazi di comunicazione che le novità tecnologiche del nostro tempo permettono. Inventare spazi nuovi digitali di incontro presuppone mettere in moto la nostra creatività per agevolare l’emergere e il realizzarsi della creatività primaria dei nostri pazienti.


“Qualunque sia la definizione della creatività che adottiamo, essa deve includere l’idea che vale la pena di vivere oppure no a seconda che la creatività faccia parte o meno dell’esperienza individuale della persona. Per essere creativa, una persona deve esistere e avere il senso di esistere, non in maniera consapevole, ma come base di partenza per agire. La creatività, è allora, il fare che emerge dall’essere. Essa indica che colui che è, è vitale. L’impulso può essere silente, ma quando la parola “fare” diventa appropriata, già è presente la creatività (…) la creatività, allora, consiste nel conservare, nel corso della vita, qualcosa che appartiene propriamente all’infanzia: la capacità di creare il mondo”6 (Winnicott, 1970, p. 31, 32).


Maria Grazia Fusacchia utilizza il termine migrazione per denotare l’attuale spostamento del setting, una migrazione che ha caratterizzato la psicoanalisi infantile sin dalla sua genesi. Inoltre, accennando all’influenza spagnola, che coinvolse tutto il mondo e anche la famiglia di Freud (ne uccise una figlia), scrive che le sembra come se “la storia della psicoanalisi infantile e quella della pandemia si intreccino sin dalle origini”. Come a sua volta si intrecciano la psicoanalisi e la guerra, visto che anche Melanie Klein tenne in analisi Richard in piena seconda guerra mondiale e, come fa notare Franco Fornari introducendo il testo di Klein, questa analisi da un certo punto di vista può essere considerata “come psicoanalisi della guerra, non per quello che la guerra è sul piano delle simbolizzazioni operative, ma per quello che la guerra è sul piano delle simbolizzazioni affettive.” (Klein, 1961, p.13). Interrogandoci sulla forma che può assumere in questa guerra pandemica la migrazione del nostro setting attuata per poter continuare a contenere e cercare di dare senso all’angoscia dei nostri pazienti, abbiamo preso atto dell’unico elemento positivo presente nei tragici eventi che stiamo vivendo, che consiste nell’aiuto insostituibile fornito dalle nuove tecnologie.

Il digitale ha consentito che il setting potesse strutturarsi intorno allo schermo del computer, del tablet ma anche del telefono. Skype e WhatsApp hanno funzionato da oggetti-ponte permettendo la trasmissione sia della voce che dell’immagine, contribuendo così alla creazione di un setting inedito. Il paziente a casa sua e l’analista anche, perché non sempre è stato possibile condividere la relazione nel consueto spazio della terapia e fruire ad esempio dei giochi in comune come era d’abitudine prima del lockdown. Lo schermo e il virtuale hanno fatto irruzione nello spazio materiale, reale e intimo. Molti nostri pazienti hanno subito accolto con entusiasmo la proposta di poterlo utilizzare per mantenere la continuità del lavoro ed esorcizzare il pericolo di isolamento. Pochi hanno rifiutato, temendo che il dispositivo tecnologico risultasse freddo e sterile. Qualcuno, con grande tristezza reciproca, non ha potuto consentirselo, o perché sprovvisto della possibilità di privacy, o della disponibilità di un gadget telematico, ancora oggi non alla portata di tutti e considerato da una fetta di popolazione alla stregua di un oggetto eccessivamente costoso. La collaborazione e l’alleanza genitoriale e/o la sua mancanza, è stata molto incisiva nello svolgimento di questo lavoro.

Ci stiamo ancora interrogando sui vari e sfaccettati significati che la relazione telematica può assumere. L’immagine che compare sul monitor assomiglia a quella che appare su uno specchio: una forma che riproduce perfettamente quella della persona reale, seppure invertendone sinistra e destra. Dal punto di vista lacaniano, la sua funzione potrebbe essere appunto paragonabile a quella assolta dal cosiddetto stadio dello specchio, che offre un’opportunità illusoria dell’integrità egoica propria e altrui, assieme a una rassicurazione di coesione narcisistica capace di porre rimedio alla frammentarietà pulsionale delle zone erogene parziali mediante identificazione alla forma cosiddetta “ortopedica” (Lacan, 1949, p. 91) dell’immagine speculare. Ciò che sicuramente manca allo schermo è la profondità dello specchio winnicottiano (Winnicott, 1967, p. 189-200), il calore corporeo ed emotivo del viso della madre, che trasmette amore, è vero, ma assieme anche tutta la psicopatologia inevitabilmente inclusa nella relazione primaria.

Le nostre osservazioni ci portano alla congettura secondo cui il vissuto e l’uso dello schermo è molto soggettivo e varia in dipendenza delle vicende interne, storiche e idiomatiche di ciascuno. C’è chi si sente protetto dall’intermediazione e dalla “freddezza” dello schermo, come è capitato a un mio paziente, che è stato felice di partecipare attivamente a un seminario on line sentendosi rassicurato dal fatto che né il suo sudore, né il rossore del suo viso sarebbero stati percepiti. Un ragazzino psicotico di 10 anni, che chiamerò Roberto, completamente destrutturato, mi ha stupito per la sua imprevista abilità nell’adoperare in modo strutturante le risorse (o le mancate risorse?) dello schermo.7 Come se per lui lo schermo assolvesse una funzione para-autistica, nel senso che gli permetteva, per così dire, di bypassare le sue massicce difese autistiche e di esprimersi più liberamente senza sentirsi minacciato in preda allo smarrimento e/o all’eccitamento. Diverso è stato il vissuto di Fabio, che da piccolo è stato in incubatrice per molto tempo: racconta di aver vissuto, durante le sessioni “on line”, tutti gli altri come fossero zombi o robot, sentendo di essere l’unico veramente in vita. Una prima considerazione che emerge da questi cenni clinici concerne domande sulla qualità della comunicazione transferale in remoto, dove la stessa locuzione in remoto contrasta con la vicinanza implicata dal transfert abituale. Ma la considerazione più importante è espressa dalla seguente domanda: se non fosse stato interrotto il setting abituale, se il setting non avesse “migrato” e non avessimo avuto ciò che Maria Luisa Algini chiama dislocazioni transferali, sarebbero ugualmente emersi questi nuovi elementi? Se, per dirla con Bleger, “grazie al covid” non fosse stata condivisa una effrazione del setting costante, non processuale, che per certi versi può considerarsi equivalente alla simbiosi col corpo materno (Bleger, 1967, 274), sarebbero ugualmente emersi questi vissuti in questa forma? Una domanda che, come insegna la filosofia della storia, non ha risposta.

Dopo questa esperienza del lockdown, potrebbero emergere “nuovi sensi inconsci?”, si domandano le autrici di “Pensare in gruppo”, formulando una serie di interrogativi legati alla tipologia e a tutte le varie sfumature emotive del lavoro in remoto. Ispirandosi a Il senso del non senso, titolo di un testo di Marion Milner che allude al tipo di lavoro richiesto dal periodo sconvolgente in cui siamo immersi, fanno riferimento alla sua elaborazione del Giobbe di Blake, che secondo la Milner esprime “la storia di ciò che succede ad ognuno di noi, quando diventiamo sterili e dubitiamo delle nostra creatività e della nostra capacità di amare e lavorare” (1956, p. 211). Sentirei di poter sostenere che ci possiamo permettere di essere un po’ come Giobbe, che riesce ad accedere alla propria creatività, ma solo a patto di fare i conti con la propria onnipotenza e i propri limiti imposti dal corpo pulsionale.

L’intensità del desiderio creativo emerge da tutti i frammenti clinici, testimoniando la forza dell’investimento e la qualità della preoccupazione materna primaria che ha mosso tutte le terapeute, dando frutti e permettendo ai piccoli pazienti di esprimersi creativamente. Eleonora Di Lucia e Maria Brando si sono impegnate a costruire con le proprie mani e a proporre degli oggetti per attutire la “violenza” del cambiamento di setting e agevolare la sua accettazione. Oggetti che hanno acquisito quasi immediatamente un valore transizionale, sollecitando la rappresentazione e la comunicazione della conflittualità. Maria Grazia Fusacchia mette, ad esempio, la bambina ipercinetica in grado di utilizzare al meglio il setting telematico. Federica Irilli, con la sua rêverie, entra in unisono col preconscio di Giulio che sta affrontando una consultazione psicologica e gli permette di dare voce al suo disagio. Nelle esperienze di Valentina Tronati e di Giulia Bonaminio emerge l’abilità dei nativi digitali e la loro facilità di usare tutte le risorse espressive specifiche dei mezzi di comunicazione per rendere testimonianza dei loro vissuti. Mentre, Maria Luisa Algini, mostra la profondità del contatto inconscio che si può raggiungere col nostro lavoro e la complessità delle corde emotive primarie che fa vibrare.

Peccherei di “ipocrisia inconscia” (Milner, 1956, p. 218) se non riconoscessi la differenza qualitativa tra la comunicazione in remoto e quella in presenza, come tra l’altro è stato sottolineato dall’adolescente di Claudia Nitiffi. Ma mi sembra che tutti i lavori, oltre ad esprimere interrogativi ad alcuni dei quali forse potremo dare risposta a tempo debito, confermino l’assunzione della responsabilità a-simmetrica che caratterizza il nostro lavoro analitico. Mantenere nella mente il rigore di un setting creativo non necessariamente implica la capacità di realizzarlo al riparo dei pericoli incombenti. In questo senso, la creatività non è esente da istanze riparative scaturite da sensi di colpa relativi all’incapacità di impedire al mondo di essere quello che è. “È colpa tua!”, urla in preda a un brusco sommovimento transferale Guido a Giulia Bonaminio, accusandola di essere stata lei a provocare il lockdown. Noi, per parte nostra, ci dedichiamo a costruire un ambiente protetto e che faciliti quanto più possibile la crescita dei nostri pazienti, convinti come siamo che, per dirla con la citazione, un po’ modificata8 che Andreas Giannakoulas fa di Platone, “un’anima che sta per crearsi, in un’altra anima deve mirarsi” (Giannakoulas, 2013, p. 60).



1I testi contenuti in questo Focus si riferiscono alla prima fase del lockdown assoluto e costituiscono il materiale presentato nella mattinata del 19/06/20 su piattaforma web organizzata dall’Istituto Winnicott, che è stata la prima Scuola in Italia a organizzare una riflessione gruppale sulla pandemia con la partecipazione di un grande pubblico. Per motivi strettamente organizzativi, questo Focus si pubblica successivamente al precedente.


2L’umanità, oltre a guerre praticamente ininterrotte, ha dovuto affrontare innumerevoli epidemie, come ad esempio la famosa peste di Atene del V secolo a. C. (Tucidide, V sec. a. C. II, 47-54), in cui trovò la morte Pericle. Da allora in poi gli esseri umani sono stati flagellati e decimati a più riprese da vaiolo, tifo, peste bubbonica, peste nera eccetera, fino alla spagnola di inizi ‘900 e alle più recenti HIV, aviaria, ebola, legionella e così via. Si coltiva oggi l’illusione, per molti versi cieca, che il progresso avrebbe posto fine una volta per sempre a questi tragici eventi.



3Il titolo freudiano è “Das Unbehagen in der Kultur” che nella traduzione italiana di Ermanno Sagittario in OSF, edizione diretta da Cesare Musatti, compare come “Il disagio della civiltà” senza specificare la ragione per cui non è stata tradotta la preposizione “in”. Invece, nella traduzione di Enrico Ganni, a cura di Stefano Mistura (2010) è stato scelto “nella civiltà”. Tramite l’indicazione di ambedue le versioni ho voluto indicare due aspetti della pandemia: è la nostra civiltà che provoca lo sconvolgimento della natura che conduce il virus ad essere ospitato dagli umani, ma nello stesso tempo è dentro la nostra vita civile che siamo obbligati a gestire questo disagio.

4È André Green a osservare come Winnicott riservi le maiuscole al solo verbo essere (Green, 2016, p. 189).

5La traduzione è di Riccardo Galiani.

6La traduzione è di Livia Tabanelli.

7Ringrazio Viviana Massaro per la condivisione di questo materiale, come anche del riferimento clinico successivo.

8(και ψυχη ει μελλει γνωσεσθαι αυτην, εις ψυχην αυτη βλεπτεον) “un’anima che vorrebbe conoscersi in un’altra anima deve mirarsi”: Giannakoulas sostituisce il verbo conoscersi col verbo crearsi.

Bibliografia

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Angelique Costis

Psicoanalista Associata SPI - IPA,

Membro Associato SIPsIA

Docente Supervisore e attuale Segretario

Scientifico dell’iW-Istituto Winnicott

Corso di Psicoterapia Psicoanalitica

del Bambino, dell’Adolescente e della Coppia

ASNE-SIPsIA


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