La società senza pensiero

La terra dell’abbastanza (2018) e Favolacce (2020).

Regia di Fabio e Damiano D’Innocenzo

giovanna maria d’amato




I gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, registi di La terra dell’abbastanza e di Favolacce, quest’ultimo Orso d’argento al festival di Berlino 2020, erano ancora ragazzi quando ne scrissero le sceneggiature. Come raccontano in una intervista, sono passati un certo numero di anni prima che queste scritture diventassero due magnifici film, senza cambiare molto, e forse per questo conservano l’immediatezza della voce e dello sguardo dei giovanissimi. I personaggi principali sono ragazzini preadolescenti, nell’età di passaggio dall’infanzia, e adolescenti, ma in entrambi i film direi che protagonista non è solo l’attore o gli attori della vicenda, bensì anche una coralità di ambiente. L’occhio della regia, infatti, pur essendo particolarmente rivolto a un’età, cattura con una forte pregnanza tutto il contesto umano in cui si svolgono le storie, il mondo cosiddetto adulto. Ed è uno sguardo diretto e impietoso, come può esserlo quello di un adolescente o di un bambino, che osserva la nudità del re con lucida freddezza e apparente assenza di giudizio. I fratelli D’Innocenzo descrivono un mondo senza pensiero, come sembra il mondo odierno dedito al “fuori”, all’accumulo, all’esibizione, al denaro come strumento di narcisismo piuttosto che come opportunità di benessere reale. Il linguaggio è scarno, a volte addirittura poco comprensibile, il vocabolario è povero perché è povero quello degli affetti, dei simboli, della immaginazione.


Ne La terra dell’abbastanza il luogo è la periferia della metropoli, dove Manolo e Mirko, due adolescenti amici per la pelle, entrambi con alle spalle un genitore solo e vistosamente disastrato, presentano dalla prima scena tutta la mescolanza di onnipotenza e fragilità tipiche dell’adolescenza, con quel tanto di sconclusionato e irridente che rende così difficile comunicare con loro. I due ragazzi sono in macchina, in uno spiazzo abbandonato ai margini della città, divorano stracci di focaccia parlando e ridendo rumorosamente a bocca piena, tra bocconi e smorfie: non si capisce pressoché nulla di quello che si dicono e che li fa tanto ridere, affiorano parolacce e suoni sghembi che rimbalzano tra loro, come se il contenuto di quello che dicono e che li fa ridere non fosse importante. Lo spettatore tende le orecchie, si sforza di capire, si irrita proprio come spesso succede di fronte all’abissale distanza che i ragazzi sembrano mettere tra sé e il mondo degli adulti. Loro sono orgogliosamente fuori di testa, come recita la canzone che ha vinto a Sanremo, e infatti dopo un po’ lo spettatore capisce che non c’è bisogno di decifrare le parole che sono come una colonna sonora, sulle cui note i due ripartono e filano sulla strada deserta dove, sempre sghignazzando, investono e uccidono un uomo sbucato improvvisamente dalla notte. Qui entra in scena il mondo degli adulti a cui i ragazzi portano il loro sgomento, adulti che nemmeno per un attimo adombrano pensieri come responsabilità, colpa, dolore, ma condividono con loro l’unico pensiero di come eludere una possibile punizione. La persona a cui si rivolgono è il padre di Manolo, che dopo avergli energicamente consigliato il silenzio e basta, tanto nessuno li ha visti, dunque la negazione del fatto e di ogni eventuale emozione, dopo qualche giorno ribalta addirittura l’incidente in un colpo di fortuna. Ha scoperto infatti che il morto era ricercato da un clan, vittima designata in fuga dalla “famiglia” che voleva ucciderlo, per cui il fatto che i ragazzi lo abbiano investito diventa una carta di merito da giocarsi presso il clan e un biglietto d’ingresso per loro nel mondo della malavita. “Abbiamo svoltato” dice questo padre che di adulto sembra avere soltanto una quantità maggiore di anni e di cinismo, e considera la possibilità di entrare nella “famiglia” l’occasione della vita che aspettava da tanto tempo, mentre si arrangiava per campare e rincorreva la fortuna alle slot-machine nei bar. L’altro genitore, la madre di Mirko, è una donna alle prese con una vita disfatta, vistosamente sola, nonostante l’esistenza di un compagno che si vede poco, tormentata dalla stanchezza, dai denti cariati che non ha i soldi per curare, dalla delusione di un’esistenza di stenti materiali e affettivi, ma che conserva nel rapporto col figlio momenti di tenerezza e di intimità. Questa donna intuisce quello che è cambiato nella vita del figlio, ma pur tentando di opporsi finisce con l’accettare la propria impotenza di fronte alla deriva di lui e ai soldi che da questa arrivano, conservando però una relazione emotiva che è l’unico nutrimento per questo ragazzo che ha imparato ad uccidere. Credo che questo piccolo nutrimento consentirà a Mirko di accedere a un tratto depressivo e dunque a un inizio di elaborazione, che lo potrebbe accompagnare a una presa di consapevolezza e di crescita reale, ma che purtroppo non ha il tempo di realizzare. Il mondo violento e brutale del non pensiero, nel quale i due ragazzi sono stati introdotti col miraggio della svolta verso un illusorio benessere, li distruggerà rapidamente entrambi. Se la prima volta hanno ucciso per sbaglio, ora lo ripetono su comando, tanto gli viene facile. “…Questi non hanno consapevolezza di quello che fanno, ce so’ portati.. so’ cani sciolti, so’ du’ matti…”, dice al boss uno dei suoi scagnozzi, proponendo i due ragazzi per l’attentato al prossimo “infame” da punire. Emblematica la scena in cui si svolge questo colloquio: accanto ai due che stanno ragionando sulla convenienza di mandare a uccidere due adolescenti sconosciuti e soprattutto ignari a se stessi, la giovane donna del boss allatta un bambino e ascolta questi discorsi di morte mentre tiene in braccio la vita. Sul suo volto non si leggono emozioni, né per il piccolissimo che ha tra le braccia, né per i giovani assassini: viene da chiedersi che tipo di comunicazione possa passare tra questa madre e il suo bambino, in un campo che appare così gelido e concreto. Lei allatta, gli uomini organizzano la morte, i ragazzi uccidono. E così i due adolescenti si muovono di acting in acting, tutto senza consapevolezza, senza mente: giro di prostituzione, spaccio di droga, uccidere ancora… Certo li sconcerta questo essere passati da zero a mille, come dice Manolo, “così, bum”, ma non lo danno a vedere. Sono in carriera da malavitosi, forse si sentono grandi, certamente potenti rispetto al loro passato di studenti squattrinati. Quando però davanti al cadavere dell’uomo che ha appena ammazzato a Manolo monta dentro qualcosa di insostenibile, forse angoscia, più probabilmente qualcosa senza nome, la risposta è ancora soltanto un agito, immediato, irrevocabile. Mirko assiste inorridito e impotente al gesto fulmineo con cui Manolo scarica un altro colpo, con la pistola ancora fumante, alla propria testa. Così non ci sarà scampo per i due ragazzi, a cui manca l’abbastanza necessario per crescere e vivere: non basterà l’amore di una madre che ha rinunciato al suo ruolo per troppa stanchezza e dolore, tantomeno le strategie furbette di un padre che scambia la vita con la morte, il male col bene, la responsabilità con l’opportunismo, come se non avesse ancora, mai, imparato a distinguere. Questo padre, dopo aver pianto la morte del figlio, o piuttosto averla espulsa con pochi aspri singulti, si consola con un pensiero spicciolo “…è quello che succede a chi fa a’ vita nostra…”, e un tatuaggio. Si fa tatuare il nome del figlio sull’avambraccio: “Così lo porto sempre co’ mme… pecché non te lo fai pure te? conosco uno che ti fa lo sconto” dice alla madre dell’altro, ancora ignara della fine del suo, che non è riuscito a portare a termine un progetto di riparazione, ma almeno è riuscito a pensarlo. Gli hanno sparato davanti al distretto di polizia, dove stava andando verosimilmente a consegnarsi, dopo uno struggente incontro con la madre, poche ore prima, all’ultima colazione insieme.


Favolacce è una favola nera dove i ragazzini non sono innocenti, o meglio sono innocentemente malvagi, e non hanno possibilità di essere altro, perché il mondo intorno a loro non lo consente. Guardando il film viene da pensare che è proprio brutto questo mondo, dove sembra si possano allevare soltanto mostri. È brutto il luogo, una periferia romana che non è più borgata e ha già una pretesa di agiatezza, con le sue villette a schiera e i giardini confinanti, ma ha lo squallore della imitazione del bello, inteso per ricchezza, dunque falso. Sono brutte le tavolate di finti amici, con i bicchieri e i piatti di plastica, e le chiacchiere sature di rabbia e gelosie più o meno nascoste. Brutti i consueti segni di benessere di consumo, fatti in serie, dai palloncini per la festa di compleanno alla pizza nel cartone, dalla piscina gonfiabile, che prende il posto di una impossibile evasione vacanziera, ai telefonini su cui padri scaricano sconcezze che i figli spiano senza alcunché di ostativo (protettivo è una parola troppo forte, sconosciuta forse da queste parti…). Questi adulti si fregiano di paternità inesistenti, si masturbano all’aperto mentre il figlio guarda dalla finestra, si sorridono azzannandosi alle spalle a colpi di pagelle dei figli o di un minimo di lavoro da esibire come gratificante, anche se non lo è, agli occhi di chi invece il lavoro l’ha perduto. Sono adulti che offrono al figlio dodicenne, mutacico, quasi autistico, i profilattici nel bagno per l’incontro con la piccola compagna di scuola più disadattata di lui, che vestono e imparruccano la figlia come fosse una bambola e non si accorgono del suo pianto muto mentre le rasano la testa perché ha preso i pidocchi. I bambini li osservano e parlano poco: sembrano sapere che se c’è una via d’uscita da questo squallore devono trovarsela da sé. Non c’è nessun contenitore e soprattutto nessun pensiero. La mancanza di un contenitore denuncia la mancanza di un “dentro”, dove sostare per crescere. Non c’è scambio autentico, la storia è una serie di accadimenti la cui risonanza emotiva o è indicibile, o è del tutto assente. Non c’è una memoria, né un sapere che si trasmette e diventa storia, un pensatore per pensare i pensieri, una funzione alfa, come dice W. Bion, che trasformi e che possa essere interiorizzata. Sembra di stare in un mondo dove dilagano elementi beta, concreti, violenti, insostenibili, dove manca una comunicazione perché manca una sintassi del pensiero che possa legare eventi ed emozioni dando loro un senso. “Oggi viviamo in un’epoca post-narrativa. Non è il racconto, bensì il conteggio ad influenzare la nostra vita. La narrazione è la capacità dello spirito di superare la contingenza del corpo” (Byung-chul Han, La società senza dolore, Einaudi, 2021). Il film scorre su una serie di quadri di quotidiana insensatezza, in cui i bambini si muovono come marionette agite da adulti inconsapevoli dei loro movimenti interiori. Anche qui assistiamo a sequenze di agiti. Un ragazzino si strozza a tavola con la carne e lo spavento dei genitori è dapprima un pianto come quello della sorellina, poi diventa rabbia, “Non si può mai mangiare in pace…” e “Hai visto che hai fatto? hai fatto piangere papà…”. La carne finisce nella spazzatura e non si mangia più. Il ragazzino è salvo, e non dice niente. Uno compra una piscina e sembra metterla a disposizione di tutti, poi di notte, quando i bambini hanno finito di sguazzare, i vicini di complimentarsi con lui e tutti sono andati a dormire, tira fuori un coltello e la squarcia. L’acqua dilaga sul pavimento, fuori dal giardinetto, incontenibile, ci penseranno il sole e l’aria ad asciugarla… Una giovane donna incinta, che serve alla mensa nella scuola e si arrangia vendendo chincaglierie usate, si offre per pochi euro a un ragazzino, e quando lui rifiuta gli mostra un capezzolo turgido da cui spreme gocce di latte su un biscotto, che poi divide con lui. È un mondo dove tutto è esteriorità, assolutamente privo di immaginazione, di simboli, perciò è tanto brutto. Questi adulti hanno le loro difficoltà, ma non hanno parole per esprimerle che non siano versi rabbiosi, parolacce, o gesti violenti. È un mondo piatto, che fa pensare a un universo bidimensionale, senza un interno, come se non si potesse fare esperienza che della superficie degli oggetti: persino l’esplorazione della sessualità, in questi ragazzini prepuberi, non è che una stentata imitazione di quella dei grandi, senza eccitazione né desiderio. La colonna sonora è fatta spesso di suoni isolati, a metà tra l’animato e l’inanimato: a volte sembra un verso d’uccello, monotono come quello del cuculo, o un ululato di cane, ma si sente che sono imitazioni, inquietanti come una bambola meccanica. È come se la vita fosse da qualche altra parte, e l’eco che qui ne giunge è solo un rumore distorto. In questo deserto emotivo solo i ragazzini conservano immaginazione, ma, diversamente dai personaggi delle fiabe, non la utilizzano creativamente, bensì a servizio della distruttività. In assenza di un contenitore dove gli elementi di brutale concretezza possano essere compresi, elaborati e trasformati, non si sviluppa pensiero, simbolismo, creatività. Perciò alla fine non trovano altro modo per esprimersi, per avere la loro voce, che fare un gran botto, mostrando di essere più forti di tutti con la ferocia e la potenza della distruttività che irrompe là dove manca il pensiero. E infatti: “Sto costruendo una bomba… non sono solo a farlo… così finisce tutto quanto” confida uno dei ragazzini alla giovane donna incinta che si diverte a sedurlo, ed è anche un come dire “Muoio quando voglio io”. È la soluzione finale che troveranno i ragazzini, aiutati dall’unico adulto che gli ha dato retta, un insegnante che spiegherà loro come costruire una bomba e il funzionamento del Malathion, un potentissimo veleno.

Sembra che il loro acting faccia pensare e porti all’estremo il self-cutting di cui fanno esperienza tanti adolescenti oggi. “I comportamenti auto lesionistici in aumento si lasciano interpretare come un disperato tentativo dell’Io di percepirsi” (idem).

I titoli di coda del film scorrono sulle note della seicentesca Passacaglia della Vita, di anonimo, con il suo testo che fa da contrappunto inesorabile alla insensatezza del micromondo fin qui rappresentato: “Oh come t’inganni/ se pensi che gli anni/non han da finire/ bisogna morire…”.

I fratelli D’Innocenzo, prima della pandemia, sembrano indicare il dilagare della contagiosità della follia, che è quello che accade quando il pensiero diventa superfluo.