Recensioni*


Mori L. (a cura di). Diventare padre. Sguardi sulla Paternità Interiore. Milano-Udine: Mimesis, 2021. Pagine 158. Euro 14,00.


Se è vero che tanto è stato scritto sui padri, la loro funzione e il loro ruolo, il pregio di questo nuovo libro curato da Laura Mori è di aver individuato un vertice di osservazione ancora poco esplorato: che cosa succede, interiormente, a un uomo quando diventa padre? Quali le tracce che possiamo mettere a fuoco dell’intenso lavoro psichico, per lo più inconscio, che sottostanno all’acquisizione dell’identità paterna? È proprio l’indagine sull’interiorità la cifra distintiva di questo lavoro, frutto della ricerca di un gruppo di specialisti, medici e psicologi, psicoanalisti e psicoterapeuti, che per quattro anni si sono incontrati per discutere di paternità. Al loro fianco – specifica la curatrice nell’Introduzione – ha partecipato, con funzione paterna di guida, Franco Mori, alla cui memoria è dedicato questo volume.

I vari capitoli sono stati a volte scritti a più mani, a volte da chi ha fatto una particolare esperienza clinica o di ricerca, ma realizzati sempre attraverso la rielaborazione di un pensiero di gruppo; la metodologia scelta è stata quella di intrecciare l’arte e soprattutto i testi letterari con l’esperienza clinica degli Autori. 

È proprio dalla letteratura che prendono ispirazione i primi tre capitoli, conducendo da subito il lettore a immergersi in una dimensione intimistica attraverso le vicende dei protagonisti uomini alle prese con l’esperienza della paternità che, come tutti gli eventi che sono portatori di grandi cambiamenti, “cambia la geografia del mondo” (p. 30). Levin, celebre personaggio dell’Anna Karenina di Tolstoj, che incontriamo nel primo capitolo, ben si presta a rappresentare le tumultuose emozioni del primo incontro con il figlio, quando la coscienza di “un nuovo campo di vulnerabilità” si fa strada nella mente: “il terrore che quell’essere impotente soffrisse era così forte, che a causa di esso non si notava lo strano sentimento di insensata gioia e perfino d’orgoglio che egli aveva provato quando il bambino aveva starnutito” (p. 26) scrivono Ceragioli, Luperini e Smorto, citando Tolstoj, per dare delle prime ma fondamentali coordinate di una buona genitorialità paterna, i cui processi ruotano intorno all’assunzione di responsabilità e al riconoscimento del figlio come proprio. “Una volta che hai deciso di considerarlo tuo figlio qualcosa cambia [...], tutto ciò che sentivi per lui è costantemente preceduto dalla paura. Non è un fenomeno biologico, ma qualcosa che va ben oltre la biologia: non è tanto la volontà di garantire la sopravvivenza del proprio codice genetico quanto il desiderio di dimostrarsi invulnerabile agli attacchi e ‘alle sfide dell’universo’, di trionfare su qualunque cosa minacci di distruggere ciò che è tuo” (p. 34) leggiamo in un passo citato da Una vita come tante di H. Yanagihara, dove le fantasie di invulnerabilità, che rimandano all’immagine del padre come guerriero, promuovono la spinta protettiva nei confronti del proprio piccolo.

Ma soprattutto la paternità è un processo che coinvolge essenzialmente la dimensione psicologica dell’uomo, il quale, a differenza della donna, non possiede indicatori biologici e fisiologici che lo aiutino ad orientarsi per scoprire la “posizione da tenere”, il proprio specifico ruolo: la paternità è un’acquisizione che origina da un atto di volontà e che fin dal periodo pre-natale richiede un rimaneggiamento psichico che riattiva la propria storia individuale e generazionale. Così John Fante, protagonista del libro Full of Life proposto nel secondo capitolo, sembra scoperchiare le emozioni tormentose e le fantasie inconsce che abitano la sua mente durante il periodo della gravidanza della moglie, quando l’intimità tra lei e il nascituro scatenano una dolorosa gelosia e un profondo senso di solitudine. A questi sentimenti si accompagnano alcune fantasie tipiche dei padri di tipo paranoico e fusionale. Fortunatamente John, nel momento di massima fragilità, resa dalla comparsa delle termiti che minacciano di distruggergli la casa, ritrova nel proprio mondo interno e poi anche concretamente la figura di suo padre che viene in soccorso per aiutarlo. La vivida illustrazione del delicato passaggio generazionale in cui il figlio John si sente incoraggiato dal proprio padre ad “abitare” il suo progetto di vita familiare è intrisa, insieme alla fierezza per il traguardo raggiunto, anche di tristezza per aver spodestato il padre dal suo posto: è un sentimento a potenziale depressiogeno, noto come “lutto evolutivo”, in cui il padre, come anche la madre, accetta di perdere lo status di figlio identificandosi con il proprio genitore. In questa fase fondamentale di crescita vengono rivisitati i propri antichi conflitti in una sorta di “terzo tempo dell’adolescenza” come scrive Bydlowski, “una nuova rottura con l’infanzia, la rinuncia a un sentimento di onnipotenza che paralizzava fino a quel momento l’accesso alla vita adulta” (p. 47). 

Fattirolli specifica: “quanto più il padre è stato presente nella vita del figlio come figura abbastanza positiva, che riesce a farsi da parte riconoscendo la crescita del figlio e accettando di essere spodestato, tanto più il figlio riesce a recuperare sentimenti affettuosi relativi al suo rapporto con lui, potendo prendere il suo posto senza sentirsi troppo in colpa, senza sentire di ‘uccidere’ concretamente il proprio padre” (p. 48). Tale passaggio può essere talora particolarmente problematico, come illustrano alcuni casi clinici trattati nell’ultimo capitolo (Storie di paternità difficili, di Fattirolli, Lapi, Fortini), in cui la possibilità di identificarsi con il proprio padre è minata da un rapporto carico di ostilità in cui il passato traumatico si riattualizza.

Nella rimessa in gioco della relazione con il proprio padre, Ceragioli e Mori riprendono il tema della “volontà riparatrice”, introdotto nel primo capitolo attraverso il toccante riferimento a Il ritorno del padre di G. Stuparich. Le Autrici evidenziano, anche in questo caso utilizzando materiale letterario, come occuparsi dei propri figli possa costituire l’occasione per guardare “sotto la crosta dei fatti” rivelando in après coup una nuova significazione del proprio passato.

Nel capitolo quarto, Cresti, Lapi e Mori forniscono una precisa cornice teorica della Paternità Interiore, puntualizzando come in tempi recenti i padri siano sempre più direttamente coinvolti e partecipi nell’accudimento primario dei figli, e come questo cambiamento solleciti più intensamente, “oltre alla mobilitazione delle parti maschili di sé e all’identificazione con il padre, anche la condivisione con la parte femminile di sé” (p. 62). Centrale è dunque l’equilibrio tra componenti maschili e femminili che si armonizzeranno se il padre saprà tollerare i vissuti regressivi sollecitati e “confrontarsi con tutto il complesso di identificazioni con le proprie figure femminili e infantili” (ibidem). Potersi identificare con entrambi i genitori è infatti il presupposto che consente al padre di collocarsi “in prossimità” della madre allenando progressivamente lo “sguardo laterale” in un percorso di crescente recettività di tutti i segnali mandati dalla diade madre-bambino. È da qui, dallo stare a fianco, che il padre impara a sostenere la madre, in “un costante lavoro mentale, un processo elaborativo in parte inconsapevole, che diventa intenso man mano che i cambiamenti del ventre materno diventano più evidenti” (p. 73) scrivono Cenerini e Messina nel capitolo Papà in attesa, in cui offrono un’appassionata trattazione del loro lavoro clinico e di ricerca durante la conduzione di gruppi esperienziali per padri in attesa e neo papà, attestando la crescente richiesta di sostegno e di intervento da parte di uomini in difficoltà nelle relazioni interpersonali e in quella di coppia. 

Questo lavoro apre dunque alla parte più clinica del libro, in cui vengono ripresi i temi teorici attraverso una ricca rassegna di osservazioni ed esperienze di clinici esperti in questo particolare ambito. Nel capitolo Nuova famiglia, primi legami, Cresti, Fiori e Lapi mostrano, attraverso la lente di ingrandimento dell’Infant Observation, i rimaneggiamenti nella relazione di coppia e nel triangolo familiare necessari per affrontare il nuovo assetto identitario. Con Paternità sospese di Italiano ci addentriamo nell’area del traumatico, quando il percorso di gestazione si interrompe e la paternità viene messa duramente alla prova: l’improvviso strappo dato dalla prematurità della nascita espone il padre a sentire tutta la fragilità e l’impotenza che rimandano a quel “terrore tormentoso” che aveva invaso il Levin di Tolstoj e che qui si materializza. È mediante la “preoccupazione paterna primaria”, che i “padri prematuri”, soprattutto se sostenuti dagli operatori, possono reagire. Grazie al lavoro psicoterapeutico, i padri di cui scrivono Fattirolli, Fiori, Lapi, Mori, Pratesi in Mancanze, perdite, riparazioni, possono trovare aiuto per ricominciare, quando l’investimento libidico di un progetto familiare viene stravolto, per esempio dall’infertilità o dal lutto del proprio bambino con la conseguente “non-realizzazione di quella nuova parte di sé […] perduta prima ancora di averla sperimentata” (p. 120).

Un libro dunque molto ricco, non solo per la molteplicità degli sguardi dei tanti Autori, ma soprattutto per la profondità dell’intento che, come disse Jeanne Magagna nel corso di un suo intervento alla presentazione del libro,1 ha un valore “politico” poiché guarda oltre i confini dell’ambito specialistico offrendosi come strumento per promuovere la necessità di dare un tempo e un ascolto alla costruzione del senso della Paternità interiore, come scrive Monti nella Prefazione: “Se il mondo ha bisogno di padri, i padri hanno bisogno di essere aiutati a dare ascolto al loro bambino e al loro padre interni, a mettersi in contatto con le loro parti creative in grado di prendersi cura di quelle fragili” (p. 9).

Silvia Testori

Lucariello M. A. La parola ai genitori. Appunti psicoanalitici per un buon ascolto. Rende (CS): Luigi Guerriero Editore, 2021. Pagine 221. Euro 26,00.


Perché è tanto importante il lavoro con i genitori nelle consultazioni e nelle terapie con i bambini? Cosa significa dare la parola ai genitori?

Queste domande costituiscono il filo conduttore di questo piccolo e prezioso volume che Maria Antonietta Lucariello ha scritto organizzando i numerosi appunti che, nel corso della lunga esperienza di psicoterapeuta e psicoanalista infantile, ha raccolto. Sono proprio questi appunti la ricchezza del testo, testimonianza di un lavoro di ricerca e di apprendimento che, come ci ricorda Bion, non può che essere il risultato dell’esperienza, prima fra tutte quella emotiva. Un’esperienza che l’autrice inizia con un incontro con se stessa, attraverso la lettura e la rilettura dei testi classici, e poi con l’Altro, la coppia di genitori, il bambino, gli allievi in supervisione. Appunti che, come scrive, “lungi dall’essere un resoconto di studi e ricerche (…) possano offrire uno stimolo ad attivare una personale ricerca del sapere” (p. 12), per svolgere al meglio il lavoro clinico con il bambino e i suoi genitori. 

Annotazioni segnate a margine di un testo durante la lettura, o raccolte al termine di un colloquio o, ancora, impresse nella memoria come può essere una poesia o un quadro, che diventano lo spunto per ripensare la teoria e la tecnica psicoanalitica, alla luce dell’esperienza clinica, arricchendole di nuovi e diversi significati. È così che, come sostiene l’autrice, il sapere, e il sapere psicoanalitico in particolare, sulla base di “un’oscillazione della mente tra il già conosciuto del corpus teorico dottrinario e il non conosciuto, o non ancora conosciuto, della propria esperienza umana nella pratica clinica” (p. 13), diventa il risultato di una elaborazione e trasformazione delle proprie conoscenze che non possono essere trasmesse, ma solo apprese attraverso l’esperienza personale.

In “Apprendere dall’esperienza”, (1962, p. 260 ed. it.) Bion scrive: “il libro avrà fallito il suo scopo per il lettore se non diventerà un oggetto di studio e la sua stessa lettura un’esperienza emotiva”. La parola ai genitori. Appunti psicoanalitici per un buon ascolto è un’esperienza emotiva oltre che un oggetto di studio.

Diviso in nove capitoli, il testo traccia il percorso di assessment psicoanalitico nel lavoro con i genitori e con i bambini. Potrebbe apparire, e in parte lo è, come nell’intenzione dell’autrice, un “sintetico vademecum” per operatori che desiderino approfondire l’argomento o per giovani psicoterapeuti in formazione, ma fin dalle prime pagine, e già a partire dalla introduzione, il lettore è messo nella posizione di osservatore partecipante del suo stesso processo di conoscenza. Con un linguaggio semplice, ma preciso e colto, Lucariello accompagna chi legge a districarsi tra i concetti psicoanalitici e la pratica clinica del lavoro con i genitori, mostrando la fertilità dello scambio tra teoria, clinica e tecnica e la vitalità del pensiero psicoanalitico in continua evoluzione.

Ogni capitolo è un piccolo lavoro di architettura, arricchito dalle citazioni dei grandi pensatori e costruito integrando il pensiero psicoanalitico con quello di altre e numerose discipline, dalla filosofia alla poesia, letteratura, arte, neuroscienze, pedagogia, che, da vertici differenti, contribuiscono a dare al tema, oggetto di studio e/o di osservazione, una conoscenza articolata e mai esaustiva. Il risultato è un viaggio alla scoperta della complessità del funzionamento psichico individuale e gruppale che, fin dal suo originarsi attraverso il corpo e nella relazione interpsichica, determina il processo di soggettivazione dell’individuo o le sue disfunzioni.

Il punto di partenza è l’ascolto. Chi ascolta chi? Il concetto di “ascolto vivo” è presente in tutti i capitoli, come capacità di “stare con i genitori e dare a loro la parola”. Viene ricordato che tutti gli scambi con i genitori avvengono attraverso la voce, la voce del genitore, ma anche quella del terapeuta, la cui musicalità rimanda alla voce materna e alle prime interazioni con il neonato, in uno scambio comunicativo che fa circolare fantasie inconsce, affetti ed emozioni che danno forma alle prime esperienze di sé. C’è differenza tra udire e ascoltare, come l’autrice osserva citando Akhtar, giacché l’uno attiene alla funzione corporea, l’altro a quella mentale. Dedicando all’ascolto un intero capitolo, Lucariello si sofferma sul significato e sulla funzione dell’ascolto analitico, parte dell’assetto mentale del terapeuta capace di “ospitare l’altro”. “Questo tipo di ascolto” – attraverso il lavoro sul transfert e il controtransfert – “funzionando come uno strumento in grado di dare significanza prima ed oltre le parole a ciò che è indicibile può consentire il riaffiorare di un bisogno profondo, il bisogno di ritrovare una esperienza di vitalità nel linguaggio attraverso il linguaggio” (p. 79). Correlato dell’ascolto è il silenzio, che “permette l’avanzare sul palcoscenico del protagonista, un lutto, un segreto” (p. 82) e che lascia spazio all’emergere del bambino nella mente dei genitori. Interessante è il richiamo alla “nostalgia” e alla capacità del terapeuta di “sostare dentro” un sentimento che “sperimentato come un movimento emotivo aperto alla sintesi delle diverse rappresentazioni di sé” nel tempo, “e all’interno di sé tra diverse rappresentazioni mentali”, stabilisce un “senso di continuità in cui la consapevolezza di un passato finito, si accompagna alla consapevolezza di un presente che non viene negato” (p. 98). Un’attenzione specifica è poi dedicata al tema dell’ascolto “quando nella psiche irrompe il trauma”.

Perché è importante il lavoro con i genitori?

L’autrice ci ricorda che i bambini non possono scegliere se iniziare o meno un trattamento analitico, o interrompere un percorso il cui scopo è quello di alleviare la loro sofferenza psichica, in quanto dipendenti dai genitori e parte integrante del gioco di alleanze inconsce del gruppo familiare. “All’analista infantile corre l’obbligo di valutare la correlazione tra il sintomo del bambino inerente alla sua specifica struttura di personalità in un dato momento del suo sviluppo e il posto del bambino nell’inconscio del gruppo familiare (…)” (p. 18). Ripercorrendo le tappe dello sviluppo infantile, aiutata dalle ricerche attuali sulla Infant Research, dalla Infant Observation e da autori come Freud, Klein, Bion, Winnicott, Meltzer, gli psicoanalisti della scuola francese, ma anche Mancia e i neuropsicoanalisti, Lucariello ci rivela, anche attraverso esempi clinici, il gioco di intrecci, per lo più inconsci, tra il mondo psichico del bambino e quello dei genitori e tra questi e i loro rispettivi genitori. Mostrando la complessità dei legami familiari e della genitorialità, sottolinea l’esistenza di patti e alleanze, sostenute da fantasie inconsce transgenerazionali e intrafamiliari e la presenza di meccanismi identificatori che giocano una parte importante nel fissare il ruolo e la funzione che il bambino, la coppia di genitori e i singoli membri della famiglia svolgono nell’organizzazione del gruppo familiare. Passo dopo passo, l’autrice porta il lettore a comprendere il lavoro necessario, a partire dalla fase di consultazione, per creare lo spazio, il setting come cornice esterna e dimensione interna all’analista, per accogliere i genitori di un bambino, o di un adolescente, che potrà giovarsi dell’aiuto del professionista solo se l’incontro tra il terapeuta e la coppia di genitori avrà trasformato la loro richiesta di sapere cosa non funziona o non ha funzionato nel loro bambino, in una domanda.

Dunque, “dare la parola ai genitori è uno dei compiti del clinico”, scrive Lucariello. Forse il compito più complesso, perché, come ci mostra l’autrice, richiede la capacità di costruire insieme un campo dinamico dentro una cornice definita. È all’interno di questa configurazione spaziale-temporale, dove il terzo può trovare spazio, che il potere evocativo della parola data ai genitori può far emergere le diverse soggettività, da quelle della coppia genitoriale a quelle della coppia coniugale, dai singoli membri con i rispettivi mondi interni ai propri gruppi familiari che, nello scambio interattivo-comunicativo con il terapeuta, anch’egli presente con la propria soggettività, promuovono quel processo che trasforma la richiesta iniziale dei genitori in una domanda, ovvero in un bisogno di conoscenza e di crescita. Una metamorfosi che passa necessariamente all’interno di un percorso di attraversamento della sofferenza, come mostra il mito cui l’autrice affida la conclusione del testo. 

Vorrei infine segnalare la articolata e copiosa raccolta bibliografica, punto d’arrivo, ma anche di partenza, di questo generoso contributo.

Floriana Vecchione