Petite fille

Regia di Sébastien Lifshitz (2019) (Netflix 2021)

aurora gentile




Soltanto qualche mese dopo l’uscita al cinema di Adolescence, Sébastien Lifshitz, uno dei primi registi francesi ad aver accostato, ormai da una ventina d’anni, le identità transgender, propone ancora un docu-film su un bambino transgender di sette anni, Sasha.

Petite fille segue il percorso del giovane Sasha e al tempo stesso della sua famiglia. Si tratta di una caso di “disforia di genere” e il documentario porta il suo sguardo su come questo percorso si svolge. È un documentario, in effetti, ma è anche un film che dispone di una scenografia molto ricercata, e di una colona sonora affidata a Vivaldi, Ravel e Debussy. Per uno psicoanalista, il film-documentario e i commenti entusiasti della critica cinematografica e dei media, a cominciare da Arté che lo ha trasmesso nella televisione francese, sono una buona occasione per cogliere l’aria del tempo in materia di transidentità. I commenti sono stati, tranne qualche voce critica e soprattutto quella delle società di psicoanalisi, davvero entusiasti. “Un’opera sconvolgente e uno dei documentari più belli dell’anno”, “Storia della fioritura luminosa di un bambino transgender” (Les échos, 24/12/20), “Storia di una bambina unica nel suo genere” (Télerama, 02/12/20), “Documentario edificante, luminoso e pieno d’amore” (Le Monde, 24/11/2020), per citarne solo alcuni. Non meno di 1.375.000 spettatori hanno visto il documentario, raggiungendo il record di audience della catena televisiva. 

Ma vediamo con ordine la storia del film. Sasha, come racconta la madre in apertura al medico di famiglia, è “nata in un corpo di bambino”, e deve condurre una lotta incessante per essere riconosciuto a scuola e al corso di danza. È una lotta anche sua, che si sente colpevole per avere desiderato una bambina durante la gravidanza. All’ospedale Robert-Debrè di Parigi (uno dei più grandi ospedali universitari d’Europa, esclusivamente dedicato alle donne e ai bambini), madre e bambino trovano infine una pedopsichiatra specialista in disforia di genere, che presta loro un accolto attento e benevolente. La diagnosi è presto formulata: si tratta di una “disforia di genere”, di cui “non si conoscono le cause”. Sasha dovrà essere accompagnato verso la “transizione”, vale a dire lungo un percorso che gli permetterà di corrispondere a degli stereotipi femminili (abbigliamento, attività, giochi) e di farla accettare come ragazza dal suo ambiente (amicale, scolare). Occorrerà prevedere interventi sul suo corpo per farlo corrispondere a quello femminile attraverso un trattamento ormonale per bloccare l’apparizione dei caratteri secondari maschili (anche se con il rischio di compromettere la sua fertilità futura). Il film ha un intento politico, come dichiara a Le Monde la sua produttrice, quello di “aiutare a cambiare lo sguardo sui bambini transgender, per questo il film ha un formato adatto al grande pubblico”. Il problema è proprio questo. Al di là di dichiararsi pro o contro questa etichetta diagnostica o pronunciarsi contro il fatto che dei bambini (o degli adolescenti, o degli adulti) intendano cambiare genere, né dissuaderli, forse è anche necessario occuparsi di tutto ciò che nel documentario è lasciato in ombra, non messo in discussione, a cominciare dalla parola del protagonista, e proprio perché la problematica relativa al cambiamento di genere, e in particolare nell’infanzia, così presentata, rischia di trovare un largo consenso nell’opinione pubblica, e di conseguenza, avviare e promuovere cambiamenti legislativi, sanitari, normativi.

In apertura una prima scena, la madre, Karine, è a colloquio con il medico di famiglia, sta dicendo che “Sasha si sente..” come una bambina, poi si corregge: “Sasha è una bambina in un corpo di maschio, da quando aveva tre anni”. La sua esitazione lascia aperto uno scarto tra il “sentirsi” e “l’essere”, tra ciò dunque che deriva dalla percezione di sé, dal vissuto, e quanto rinvia a un’essenza, a una certezza assoluta. La comunicazione ci rende perplessi, ma è lasciata cadere con tutto il suo peso definitorio, storicamente datato. Ne sappiamo un po’ di più quando la madre incontra in un primo colloquio la pedopsichiatra specialista in disforia di genere, che le chiede se durante la gravidanza avesse pensato al sesso del nascituro. Così scopriamo che la mamma di Sasha avrebbe voluto una femmina e che è rimasta molto delusa dall’aver appreso che avrebbe avuto un bambino di sesso maschile. Si sente molto in colpa per questo, pensa di aver fatto qualcosa di male, di sbagliato, e racconta anche di aver perso due bambine prima di Sasha. Aggiunge anche che Sasha è l’unico dei suoi figli ad avere un nome ambigenere, perché? “Mi sono detta che così era scritto”. Durante il film, lo ripete più volte, e i suoi familiari condividono questi suoi pensieri. Sembra evidente che questa “teoria” non può essere messa al lavoro da lei, cioè il dolore causato dalla perdita delle due bambine e il lutto da fare, le sue paure sulla capacità di Sasha di sopravvivere, e correlativamente i suoi sentimenti di colpa. La possibilità di elaborare tutto questo sarà comunque polverizzata dall’intervento della pedopsichiatra, ancora di più nel secondo incontro con questa. Quando la pedopsichiatra, alla fine del colloquio, chiede alla madre se c’è ancora qualcosa che vuole dirle, la madre ancora ritorna sul suo desiderio di una bambina, e sul fatto che questo possa aver fatto di Sasha un bambino transgender. La risposta della specialista è netta: “Non si sa a cosa è dovuta la disforia di genere, ma sappiamo a cosa non è dovuta, cioè al desiderio dei genitori, del padre o della madre. È una paura riportata dai genitori, ma sappiamo che questo non ha nessuna incidenza sull’apparizione della disforia di genere, sappiamo anche che non si tratta di errori dei genitori, va detto subito. Le cose stanno così, non sappiamo il perché, ma è così”. Questo incontro lascia in effetti stupefatti. Viene evacuata la possibilità della madre d’interrogarsi sul suo rapporto inconscio con il bambino, sulla singolarità della loro relazione. Perché questo desiderio cosciente di una figlia (tanto più che ne ha già una, la prima della fratria), si è manifestato in quel tempo della sua vita, quale è il fantasma che presiede a questo suo desiderio manifesto? Si sarebbe potuto tornare sulla sua storia, su ciò che ha preceduto la nascita di Sasha, ma niente di tutto questo appare nel documentario, nonostante l’insistenza della madre a riproporre un possibile rapporto tra il suo desiderio e la nascita di Sasha. La pedopsichiatra, alla quale Lifshitz fa occupare il posto onnisciente di chi sa, difatti riduce il caso unico di Sasha a una serie, identica per tutti, e alla quale si potrà applicare un protocollo, squalificando le storie, uniche e singolari, di tanti bambini in sofferenza. Se occorre certo guardarsi dall’immaginare un legame causale diretto tra la “disforia di genere” di Sasha e il fatto che la madre aveva tanto desiderato una bambina durante la sua gravidanza, che era stata molto delusa dal sapere che in effetti aspettava un bambino e che aveva perduto due bambini di sesso femminile prima di Sasha (questo perché la complessità del processo di sessuazione va ben al di là di causalità di questo ordine), questo non significa che non ci sia alcun rapporto. Ci sembra anche importante rilevare che la domanda dell’attestato, richiesto dalla madre, che può consentire a Sasha di essere accolto nella scuola come di sesso femminile, vale a dire la richiesta insistente che sia documentata l’identità transgender di Sasha, in mancanza di un diverso tipo di ascolto e di lavoro, appare comunque come il modo di risolvere l’enigma che affligge la madre, una risposta che possa comunque legare la sua inquietudine: la richiesta del riconoscimento istituzionale della nuova identità risponde a un’esigenza di legame psichico, a un’esigenza di integrazione di quanto risulta inintegrabile per la madre e per Sasha, cioè l’esorbitanza e l’enigmaticità del desiderio materno.

Ritorniamo a Sasha, tutti parlano di lui/lei, ma qual è la sua parola? In realtà nel film parla molto poco, pochissimo. Noi spettatori, possiamo soltanto vederlo, osservarlo, mentre si esibisce come piccola danzatrice nella sua camera “da bambina”, abbigliata da bambina secondo i codici “femminili” in vigore nel film. Tutto il contesto parla di Sasha come di una bambina. La sua camera è piena di immagini di farfalle colorate alle pareti, i suoi giochi sono in rosa, come i suoi peluche, i suoi ponies giocattolo, le sue otto Barbie e le sue scarpe dorate, la sua borsetta rosa, perfino il flacone per le bolle di sapone è rosa. Tutto appare proprio come un gioco teatrale per indossare il desiderio materno, in totale identificazione al genere che la madre le assegna. Abiti che Sasha non depone mai, svelando la fissità della sua identificazione alla madre.

Al di là della difficile ammissione che questi stereotipi socialmente costruiti corrispondano a “essere una femmina”, non riusciamo a capire in cosa “Sasha è una femmina”. Quali sono allora le rare parole di Sasha sulla questione?

“Perché siamo qui Sasha?”, gli chiede la madre, in presenza della pedopsichiatra: “Per…”, la madre interviene: “Chi sei tu Sasha, tu sei cosa?”, “Una bambina”, risponde Sasha, voltandosi verso di lei e cercando uno sguardo di approvazione. Che arriva subito: “Voilà”, dice la madre, poi insiste: “Ma tu sei nata maschio o femmina?”, Sasha: “Maschio”, “Voilà”, conclude la madre, con un’espressione raggiante, quanto quella di Sasha era esitante. Si noterà in questa sequenza quanto la parola di Sasha non sia affatto libera, tanto appare dipendere dall’adesione a quanto la madre si aspetta di sentire. Anche se questo documentario s’intitola Petite fille, si tratta della madre tanto quanto si tratta di Sasha. O per meglio dire, è un ritratto della loro relazione, della vita di entrambi avvolti nella rete della reciproca relazione fusionale. Sasha è in permanenza in presa diretta con lo sguardo materno, il suo sorriso e la sua parola. La fusione è totale. Non c’è nessuna differenza tra i due desideri, nessun tratto discordante appare dove Sasha potrebbe attestarsi per esprimere qualcosa del suo stato in movimento e realizzare così una parziale disidentificazione. Nessun conflitto, perché la “fluidità” del genere, il riconoscimento sociale e normativo di un passaggio “libero” tra i sessi, libero appunto dalle imposizioni delle norme eterosessuali, dal riconoscimento della differenza sessuale appunto, promette di annullare qualsiasi conflitto. Per Sasha è difficile fare una distinzione tra sé e sua madre, tranne forse nel momento in cui piange durante il terzo colloquio con la pedo-psichiatra. Un pianto silenzioso che appare quando questa gli chiede se quando stringe la mano della madre forse intende rassicurarla che ha fatto la scelta giusta. “Tu la rassicuri un po’, è così?”. Poiché Sasha non dice nulla e piange, possiamo soltanto supporre che qualcosa di profondo nella sua relazione con la madre sia qui in gioco. Si vorrebbe correre in suo aiuto, certo, riservare a entrambi un spazio riservato e protetto di riflessione sulle scelte a venire, piuttosto che metterle in atto e reificarle in un processo difficilmente reversibile, a tal punto le poste in gioco mediche, istituzionali, sociali e politiche, finiranno per superare i principali protagonisti.

La clinica ha il compito di accompagnare, intendere il sintomo, evitare qualsiasi passaggio all’atto irrimediabile soprattutto nei soggetti in via di sviluppo e d’altra parte aiutare un’elaborazione in cui la vita psichica si costruisce e dà il tempo alle realtà interne e esterne di precisarsi e articolarsi.

Una sostanziale afasia affligge i nostri tempi, come nel caso di Sasha, e non una “liberazione della parola”, come sostenuto dai discorsi ideologici sull’infanzia e l’adolescenza.