Captain Fantastic

Regia di Matt Ross (2016)

giovanna maria d’amato




Captain Fantastic, scritto e diretto da Matt Ross, è stato presentato nel 2016 al Sundance film Festival, ha vinto a Cannes il Premio per la Giuria nella sezione “Un Certain Regard”, e il Premio del Pubblico alla Festa del Cinema di Roma.

Il film è una specie di favola moderna: racconta la storia di una coppia di genitori hippy che hanno deciso di vivere e allevare i sei figli nella foresta, in modo antitetico ai paradigmi della società borghese e consumistica creata per l’uomo dal mondo occidentale, in cui si sviliscono e affogano le migliori risorse creative e umane. Mentre l’attuale società si compone di adulti dediti all’accumulo di denaro e adolescenti annoiati persi dietro videogiochi e altri beni di rapido consumo, questi ragazzi, bambini e adolescenti, crescono educando il corpo a essere forte e a vivere in armonia con la natura, sollecitati a nutrirsi di discipline e letture che arricchiscono la mente. Questo tipo di educazione, che non ammette compromessi col sistema, ha una sua generosità di intenti e una sua ferocia, nell’aderire a un modello che si illude di poter evitare il “disagio della civiltà”. Il film si apre con una scena cruenta di iniziazione, in cui il figlio maggiore uccide il suo primo cervo con un coltello da caccia, e il padre lo consacra uomo, al posto del ragazzo che è stato, offrendogli da mangiare il cuore sanguinante della bestia uccisa, tra l’ammirazione e la commozione degli altri.

La famiglia sembra vivere in perfetta armonia, salvo l’ombra dell’assenza della madre, ricoverata in ospedale perché gravemente depressa, e di cui arriverà dopo le prime scene la notizia dell’avvenuto suicidio.

Ho parlato di coppia perché, nonostante la presenza vigorosa e fortemente carismatica del solo padre, interpretato da un magnifico Viggo Mortensen che ha ricevuto per questa prova una meritatissima candidatura all’Oscar come migliore attore, la madre è sempre fortemente presente, nell’amore incondizionato dei figli e del marito e nella condivisione di un progetto di vita utopistico e affascinante, anche se la depressione di cui muore apre sicuramente una crepa in tanta determinazione a perseguire un sogno di felicità esclusiva e appartata dal resto del mondo. Soprattutto è presente nella missione che i figli intendono compiere per lei: attuare le sue volontà testamentarie contro la messa in scena rigorosamente convenzionale del funerale preparato dalla sua famiglia d’origine. Questa missione è definita dalla più piccola dei figli la missione di “salvare papà e mamma”, e mi sembra con questo che venga riaffermata la presenza e l’importanza della coppia genitoriale, che può esistere al di là della presenza fisica di entrambi i membri, quando il genitore presente si fa portavoce e porta presenza di quello assente.

Nel presentarci la vita e il sistema educativo della famiglia, lo spettatore non può fare a meno di essere disturbato e al contempo affascinato da questo padre che come un dittatore amorevole forgia i ragazzi secondo un suo modello fortemente idealizzato di vita, convinto di fare del suo meglio, ma totalmente indifferente all’estraneità dell’altro che può avere bisogni diversi. È un sistema educativo basato su allenamenti fisici estremi, alimentazione semplice e sana, fatta di caccia e dei frutti che offre la terra, su studi rigorosi e poliedrici atti a dar loro una presunta originale e autentica conoscenza della realtà. Non festeggiano il Natale, ma festeggiano il compleanno di Chomsky, l’intellettuale americano che ha studiato il condizionamento operato dal sistema sull’individuo. Non frequentano una scuola, ma ricevono in casa un’istruzione altamente qualificata. C’è una scena in cui Ben, il padre, chiede a una delle figlie che sta leggendo Lolita di parlarne agli altri, incoraggiandola ad esprimere quello che di originale in lei suscitano i personaggi e le loro vicende. Anche se a tutta prima può infastidire l’aria un po’ perentoria, quasi un interrogatorio d’esame, che la scena assume intorno a un tavolo di colazione, non si può non essere d’accordo con la valenza didattico-educativa del modo di indurre la ragazzina a riflettere sulla lettura fatta e a trarne qualcosa di autenticamente significativo per lei. La giovane lettrice è sollecitata a pensare alle emozioni che suscita in lei la storia di Lolita, scevra di giudizi, ai sentimenti contrastanti che prova nei confronti del protagonista: rifiuto verso il suo comportamento sessuale, ma insieme comprensione e pena per lui. Viene da pensare a come si vorrebbe che fosse praticato l’insegnamento nella scuola.

Tuttavia, questo sistema di vita e di valori in cui il gruppo vive risulta totalmente scollegato dal resto del mondo, perché fondato su una marcata scissione tra “noi” e gli “altri”, tra valori positivi e negativi, che esclude ogni possibilità di integrazione, come se tutto il bene stesse da una parte e tutto il male dall’altra. “Potere al popolo. Guerra al sistema”: è lo scambio di battute tra il serio e lo scherzoso che avviene tra il padre e la figlia più piccola, un po’ l’altra versione di quello che nel mondo convenzionale è il “give me five”.

Il funerale della madre rappresenta l’occasione di misurarsi con la realtà fuori della foresta, il piccolo mondo incantato in cui vive racchiuso il nucleo familiare. I sette intraprendono un viaggio con lo sgangherato pulmino che usano per gli spostamenti verso il New Mexico, dove vivono i nonni materni che hanno organizzato per la figlia un funerale cristiano, in barba a tutte quelle che erano le convinzioni e le volontà della donna. Buddista, lei voleva essere cremata e che le sue ceneri fossero versate nel water di un bagno pubblico, in una cerimonia dissacrante e burlesca, come una negazione della perdita e un’affermazione della volontà di felicità e di vita.

Lungo il viaggio, tema caro a tutta una generazione di cineasti e spettatori, si svolgono tappe fatte di snodi e conflittualità che emergono nell’incontro con la realtà degli altri, realtà che a volte i ragazzi sanno stigmatizzare sapientemente con la loro ricchezza culturale molto al di sopra di quella dei coetanei, e che altre volte li trova ingenui e sprovveduti nel loro essere un microcosmo distaccato e unico. La sessualità acerba e inconsapevole del giovane cacciatore consacrato uomo si svela in tutta la sua impacciata difficoltà di incontrare e farsi riconoscere dall’altro, nonostante nulla di quello che è la realtà del corpo e delle sue funzioni sia mai celato nemmeno alla più piccola della truppa. Tutto è spiegato e svelato in termini onestamente e rigorosamente scientifici, quello che attiene al mondo della natura e degli uomini, ai rapporti di potere e alle leggi della finanza, e anche l’accadere degli eventi come il suicidio della madre, la sua malattia che Ben aveva descritto come una difficoltà del corpo materno a produrre una quantità efficace di serotonina.

Forse è proprio a partire dal dolore di questa perdita, per cui non trova altra espressione che pugnalare forsennatamente un tronco d’albero col suo coltello da caccia, che il ragazzo più giovane comincia a mettere in discussione le loro regole di vita, che non hanno impedito alla mamma di morire. Allora chiede con rabbia perché non possono festeggiare il Natale come tutti, invece del compleanno di Chomsky, e ricevere in regalo solo armi da caccia. Qui viene da pensare infatti che Zio Chomsky, loro idolo e modello, è tutto sommato un personaggio istituzionale, e allora perché il figlio maggiore non deve seguire il sogno di studiare all’università? Durante il viaggio egli mostra al padre i test di ammissione che ha fatto a sua insaputa per le più prestigiose università degli U.S. con ottimi risultati dovunque, e si scontra con la disapprovazione del padre al suo progetto, ma poi scopriamo che è stata la madre ad aiutarlo e indirizzarlo. 

Così, il sogno di una vita fuori dagli schemi, che Ben persegue con tanta ostinazione, una specie di mito del buon selvaggio, microcosmo utopico caro alla generazione degli anni sessanta e settanta, ma anche una dimensione forse della mente adolescente, comincia a mostrare delle falle. È una idealizzazione forte che mostra alla fine la sua irrealizzabilità nell’essere tale, una idealizzazione, appunto, che non tiene conto dei limiti. “A meno che non sia scritto su un cazzo di libro io del mondo non so assolutamente niente”, dice lo stesso figlio che si ribellava alla festa di “zio Chomsky”, e ora sceglie di restare coi nonni. Per la prima volta Ben, dopo che una delle figlie ha rischiato di morire in uno dei loro progetti estremi di rifiuto del sistema dominante, comincia a dubitare della sensatezza del suo programma di vita. Lo scontro con la realtà sembra coincidere con il riconoscimento della perdita, e con l’inizio del lutto. Il taglio della barba di Ben rappresenta la rinuncia definitiva al sogno e l’accettazione del lutto, il che implica anche la presa d’atto di un fallimento genitoriale e porta all’abdicazione di ogni risorsa, risorsa che invece fin qui abbiamo pur vista all’opera nei suoi aspetti di capacità di legame e di autenticità di affetti. “È stato un errore bellissimo, ma è stato un errore”, dice Ben, disponendosi a lasciare ai nonni la cura dei figli.

“Salvare papà e mamma” diventa dunque anche la missione del recupero della funzione educativa del padre quando sembra travolta dalle necessità storiche, che rischiano di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Saranno le buone risorse, alla fine, che permetteranno al gruppo di recuperare, con un maggiore senso di adattamento alla realtà, il sogno di costruirsi come esseri meno condizionati dal conformismo globale e meno asserviti al sistema, senza per questo rinunciare a trovare un posto nel mondo, a entrare in relazione con gli altri, a fare ciascuno le sue personali esplorazioni e scelte. Il figlio più grande, che all’inizio del film abbiamo visto diventare uomo secondo un rituale iniziatico tribale, si taglia i capelli che portava lunghi come un giovane dio dei boschi, facendo il paio col taglio della barba del padre: sembra un nuovo rito iniziatico, che sancisce il suo ingresso nel mondo e la separazione dall’idillio familiare, in cui mentre si insegnava a essere se stessi attraverso gli strumenti di una cultura alternativa, in realtà a nessuno era concesso di essere altro dal gruppo. La scena della separazione dal corpo della madre, a missione compiuta, è anche una scena di riconoscimento della perdita, in cui possono stare il dolore, la nostalgia, la rabbia, il sentirsi soli, ma anche il ricordo e la volontà di continuare. Le note di Sweet Child O’Mine, il brano dei Guns N’Roses cantato da una delle figlie a cui si uniscono gli altri, accompagnano la cremazione della madre, e sono il loro saluto. Il nuovo assetto psichico consentirà al gruppo di trovare una strada di compromesso tra il sogno e la realtà, in una vita più adattata, dove c’è posto per la scuola, una fattoria, il viaggio.

Senza perdere la speranza di un mondo migliore, come dice Chomsky, citato dal figlio più piccolo che era stato il primo a ribellarsi al rigore del sogno paterno:


“Se credi che non ci sia speranza, farai in modo che non esista nessuna speranza. Se credi che esista un istinto verso la libertà, farai in modo che le cose possano cambiare. Ed è possibile che tu possa contribuire a creare un mondo migliore” (N. Chomsky).


*Rubrica coordinata da S. Oliva, M. Rossi, A. Gentile e G. M. D’Amato.