Bones and all

Regia di Luca Guadagnino (2022)

milena robert, silvia ronconi


Bones and all è un film di Luca Guadagnino, presentato alla 79a mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Leone d’argento per la migliore regia. È liberamente tratto dal romanzo “Fino all’osso” di Camille DeAngelis del 2016, definibile nel suo genere come romantico-horror.

Ma cosa sia effettivamente questa pellicola dura e “dietetica”, che può, cioè, provocare una reale sensazione di disgusto, non è affatto chiaro.

Questo film può rientrare davvero in tante definizioni: è un road movie, innanzitutto, che trascina lo spettatore in un non-luogo, rappresentato da diverse ambientazioni negli Stati Uniti degli anni ‘80 e lo prepara per aprirsi alla dimensione del viaggio, quindi dell’inatteso e del nuovo. Si alternano così paesaggi rigogliosi e naturalistici, a tratti selvaggi, a cittadine anonime e spersonalizzanti, senz’anima, senza cultura, dove crescere senza alienarsi sembra disperatamente impossibile. Un’America povera, dove si fatica a sbarcare il lunario, lontana dal capitalismo vincente di Trump alla “America first”, ma dove la gente è abbandonata ai suoi drammi quotidiani, alla sua malattia mentale, in una solitudine ed in uno squallore avvilenti. Queste caratteristiche ci riavvicinano alle atmosfere di qualsiasi periferia estrema, un pugno di palazzi senza identità né servizi di molte delle grandi città nostrane: Roma, Milano, Napoli, Palermo. Non c’è il sogno americano, non c’è la rivincita, anche se ci si spera fino alla fine.

I protagonisti del film sono due emarginati, due diversi, due cannibali, che a causa della loro spaventosa mostruosità non possono che ritrovarsi soli. Vinti dalla loro condizione, non hanno alternative, possono essere solo quello che sono, entrare l’uno nell’altro, si aiutano, hanno un gran bisogno d’amare: sono affamati d’amore!


*Rubrica coordinata da S. Oliva, M. Rossi, A. Gentile e G. M. D’Amato.

È un teen drama, sicuramente, una metafora dell’età più intensa, voluttuosa, avida, e a volte decisiva, della vita umana. Un simbolismo della fame di vivere, della fame d’amore, del bisogno di mangiare la vita, ma anche della necessità di ricostruire la propria origine, di individuarsi, separarsi e di trovarsi.

Un’età in cui “il prendere corpo” è una scoperta, un fatto pulsionale, un percorso soggettivo e inesplorato che altera e, al tempo stesso, offre nuove possibilità; nel film infatti il corpo e in particolare la bocca sono sempre in primo piano.

È un film horror, in cui ci si chiede come l’autore riesca a farci sentire tanto amore e passione per le vicende dei due giovani personaggi, così tanto raccapriccianti, sempre al limite della perversione, ma al contempo teneramente disperati, bisognosi, nel loro tentativo di vincere o accettare quello che sono, la loro condizione naturale, sperando che il loro incontro, la loro relazione possa aiutarli a smettere, sperando che l’amore possa essere salvifico. Ma l’amore è sempre salvifico? O anche l’amore ci può mangiare? 

Eppure è proprio questo che succede ai sentimenti dello spettatore, ed è per questo che il film vale la pena di essere visto: come metafora del funzionamento emozionale, ci mostra come vissuti intensi e stati d’animo opposti possano coesistere in un “minuscolo spazio vitale” (citazione dal film “Aladin” di W. Disney), ossia nel breve e torturato spazio vitale del film. Bisogna amarli questi cannibali, nella loro innocente mostruosità.


La storia


Siamo in Virginia. Maren vive con il padre vagabondando ai margini di diverse cittadine, in perpetua fuga a causa del suo problema cannibalico, presente fin dalla tenera età. Non appena diciottenne, ricade in un episodio di cannibalismo e il padre stanco e deluso l’abbandona. Sola e senza casa decide di andare a conoscere la propria madre, che si trova chissà dove in Minnesota. Mentre fugge, spaventata da sé stessa e dalla polizia che vuole indagare su di lei, incontra Sully, un anziano cannibale che ha verso di lei un’attenzione morbosa, ma che la introduce alle sue abitudini e al suo modo di sopravvivere, e con lui fa il suo primo pasto… un’anziana signora sola e ormai agonizzante. Marlen riesce ad allontanarsi da lui e, nel passaggio all’interno dello stato dell’Indiana, incontra Lee, un coetaneo anche lui senza dimora e che la riconosce dall’odore. Le offre subito un “pasto” che la ragazza per una prima volta rifiuta, ma che successivamente condividerà tragicamente con lui. I due, nonostante la tremenda mostruosità della loro natura, tentano, inutilmente, di avere una sorta di regolamento interno, che tuteli l’idea di un’infanzia e di una famiglia che non hanno mai avuto, ma di cui sentono il bisogno. Pensiamo a quanti ragazzi nelle periferie degradate o nel disagio psicologico in generale possano sentire quanto necessario sia un legame affettivo sincero, duraturo e costante, ma sappiano di non poterlo vivere. Cosa significa non aver mai avuto quel sostegno e quella sicurezza offerti da un ambiente disponibile ed accogliente ed invece vivere in un luogo dove come contro-offerta esiste solo la violenza, il consumo (di beni, di droga, di persone) che fa sentire vivi, sazi, appagati? Restando nella metafora, i ragazzi protagonisti, divorati dai loro impulsi, mai compresi, mai contenuti dallo sguardo e dall’impegno dell’altro, cercano di uccidere persone sole, che non abbiano cioè una famiglia (ciò che a loro manca) e quando fanno un errore rispetto alle loro “regole” sono dilaniati dal dubbio e dalla colpa per quello che è la loro sadica natura. Insieme vagano alla ricerca delle proprie origini, sia nel paese di origine di lui, il Kentucky, dove conoscono l’amata sorella, sia finalmente in Minnesota dove si realizza l’incontro terribile con la madre di Maren, autoreclusa in manicomio, auto mutilata per non arrecare danni agli altri e alla sua stessa figlia. Scoprono così di avere storie di vita comuni, anche il padre di Lee ha tentato di mangiarlo e lui lo ha dovuto uccidere per salvarsi. Alla fine di questo percorso di ricerca di sé decidono di cambiare vita e di unirsi per dominare il loro impulso. Sembrano felici, riescono a gestirsi vivendo insieme in una cittadina universitaria, dove Lee lavora e Maren frequenta dei corsi. Ma il loro passato li insegue: Sully si è invaghito di Maren e non lascerà che i due protagonisti vivano in pace le loro vite e li attacca. Ma qual è il significato del titolo del film “mangiare fino all’osso”? Nella sequenza del film nel quale Maren e Lee si trovano sulle rive del Mississipi e incontrano un altro gruppo di cannibali, i nuovi arrivati spiegano che si tratta di un “rito di passaggio” per completare un percorso di crescita identitaria ed accettazione della propria natura. Quindi la scena finale, in cui si intuisce che Maren mangia Lee fino all’osso, può essere interpretata ancora come una metafora del viaggio compiuto dalla ragazza che, nell’accettazione della propria natura e attraverso il riappropriarsi doloroso della propria storia, può ora procedere da sola per la sua strada.


Riflessioni


L’adolescenza, come sappiamo, non è solo una fase del ciclo vitale, ma anche un momento evolutivo, dove si colloca un punto di svolta per la riorganizzazione di tutto il funzionamento psichico. In questo processo il corpo è protagonista e le nuove sensazioni, determinate dall’insorgenza pubertaria, irrompono prepotenti nel vissuto degli adolescenti. Queste stesse sensazioni possono determinare un rafforzamento dell’Io se ben canalizzate, ma debbono essere elaborate e giungere ad un livello rappresentativo e simbolico di pensiero. Questo è possibile solo all’interno di relazioni significative, che consentano la costruzione della propria identità a partire dalla ricerca della propria storia originaria. Laddove non sia stato possibile il rispecchiamento empatico all’interno dei legami primari, questa simbolizzazione diverrà impossibile e le spinte libidiche ed aggressive del periodo adolescenziale potranno trasformarsi in agiti, a difesa di un possibile breakdown.

Come sappiamo, l’adolescenza è un processo di cambiamento anche violento, nel quale uno dei compiti evolutivi è l’integrazione dell’aggressività: l’adolescente deve subire l’irruzione prepotente dei cambiamenti corporei che possono essere vissuti come capaci di sottometterlo rispetto ai nuovi bisogni. Ecco, dunque, la storia dei due protagonisti, che non hanno avuto nessuno nella loro infanzia a cui riferirsi, nessuno che abbia potuto comprendere, elaborare e restituire loro i propri impulsi e che ora si ritrovano preda di questi ultimi, che diventano agito violento. I protagonisti del film urlano il loro bisogno di vita, ma di più la loro solitudine, il loro vuoto originario, il trauma della deprivazione e dell’assenza che prende corpo nel secondo tempo dell’adolescenza.

Viene alla mente il contributo di Vigna Taglianti (2020), che ci dice come l’assenza di genitori “in salute”, ossia in grado di reggere emotivamente il conflitto edipico che si rinnova durante la fase adolescenziale, contribuisca ad alimentare nei giovani un vissuto di sopraffazione rispetto a vere e proprie fantasie “omicide e di rivolta”, che assumono, in assenza della sponda dell’adulto, connotazioni spaventose. L’assenza del genitore autorevole, che può essere distrutto in fantasia, apre la strada ad un’impossibilità per il ragazzo di appropriarsi di ciò che sente come amabile e valido nei suoi genitori. Ciò lo rende privo di quegli aspetti della personalità in grado di mitigare e trasformare le intense spinte pulsionali presenti nell’adolescenza, che vengono quindi agite tout court anche in maniera distruttiva, per non restarne passivamente sopraffatti. 

Ecco quindi il vuoto, l’assenza, l’urlo di disperazione senza nessuna risposta di questi protagonisti e che si riflettono nel vuoto dei paesaggi proposti dal regista, siano essi naturali o urbani: pensiamo solo alla scena finale, dove i ragazzi sono soli in mezzo ad una distesa infinita di prato. È la sfida che la nuova generazione pone agli adulti e agli psicoterapeuti oggi: essere presenti, vivi, responsabili.

Vederli, capire la sfida che hanno di fronte, perché la sfida della soggettivazione suscita un’angoscia identitaria permanente o parossistica, che si manifesta con un sentimento di vuoto, d’inutilità, di radicale autodenigrazione, ma suscita anche quella disperata ricerca di un Sé inafferrabile che può essere all’origine di diverse soluzioni difensive.

Quindi, la sfida suscitata dalle sollecitazioni pulsionali interne ed esterne sarà anche quella specifica e che la loro generazione affronta per la prima volta. Le generazioni di adolescenti hanno caratteristiche simili nelle varie epoche, ma crediamo che ognuna sia diversa rispetto al momento storico che sta vivendo (pensiamo alla svolta della realtà virtuale e alla crisi climatica che caratterizza la nostra epoca) ed è anche qui che noi adulti dobbiamo porre la nostra attenzione, con sguardo curioso, non stereotipato e mai stanco di conoscere.