Ritorno a Seul

Regia di Davy Chou (2022)

fiorella pascale langHer


Il film Ritorno a Seul è stato selezionato per la sezione Un certain regard al festival di Cannes 2022, e ha ottenuto una candidatura agli Spirit Awards.

È un film molto bello, intimista, si potrebbe dire, sul dolore e la difficoltà di elaborare la ferita che provoca l’essere abbandonati alla nascita, ma anche un film sull’identità e il difficile percorso psicologico necessario per trovare il proprio posto nel mondo. Il regista franco-cambogiano Davy Chou mostra con questo lavoro di essere un profondo conoscitore della psiche e di avere una raffinata capacità di mettere in scena i movimenti dello spirito.

La protagonista (interpretata dall’attrice Ji-Min Park) è una ragazza di 25 anni. Il suo nome è Freddie, è nata nella Corea del Sud ed è stata adottata molto piccola da genitori francesi.

Nella prima scena la vediamo a Seoul alla reception di un albergo, di fronte a lei una ragazza coreana l’accoglie ascoltando musica con le cuffie. Ciò che colpisce è l’espressione quasi innamorata con cui Freddie guarda la ragazza. Non le chiede subito se ha una stanza libera, ma se le passa le cuffie. Le indossa e di nuovo la sua espressione è eloquente, sembra quasi sorseggiare con gusto ciò che ascolta. Lo spettatore ancora non sa, ma intuisce un desiderio in Freddie, forse quello di essere l’altra ragazza? Sicuramente di assaporare la musica di quella vita che in qualche modo la riguarda e nello stesso tempo le è estranea.

Freddie è tornata in Corea per la prima volta per caso, lo scopriamo perché lo racconta ai genitori francesi telefonicamente, ha perso l’aereo per il Giappone e ne ha preso un altro, il primo disponibile, che l’ha portata nel suo Paese d’origine dove non era mai ritornata.

Il regista fa capire così che Freddie è una di quelle ragazze adottate che non riescono a condividere con i genitori, apertamente, il bisogno di andare alla ricerca delle proprie origini, trovare, conoscere i genitori biologici. Scoprire la ferita su cui si impianta il legame tra genitori e figlio adottivo può essere molto doloroso. Ai genitori adottivi è stato possibile elaborare il fatto che non hanno generato quel figlio? E accettare che questi possa sentire in modo angosciante di essere “sangue del sangue” di altri genitori, per di più sconosciuti? Forse la madre ed il padre della nostra protagonista non sono riusciti a farsi contenitori di questo dolore o per lo meno Freddie così ha temuto. Dei genitori francesi il film non ci racconta nulla, ma ci fa vedere molto bene il percorso lungo e doloroso che bisogna attraversare per entrare ed uscire, poi, mai definitivamente, dal vuoto, quasi un buco nero, che caratterizza l’inizio della vita di quei ragazzi che sono stati adottati e non sanno nulla della propria nascita.

Un’altra scena che mi è sembrata molto significativa, perché mette bene in risalto la difesa onnipotente che può essere utilizzata per nascondere e negare il buio delle proprie origini, è ancora nella parte iniziale del film. Freddie è in un bar con la ragazza dell’albergo e il fidanzato di questa. C’è tra i tre giovani una situazione di conoscenza, la coppia mostra a Freddie alcune tradizioni del loro Paese, come il fatto che debba essere sempre l’uomo a versare da bere alla donna, ma Freddie sfida queste regole, e poi, come per sbandierare la sua sicurezza, pronuncia una frase emblematica: “Dappertutto ci sono segni che non riusciamo a vedere, ma se impariamo a leggerli e a valutarne il rischio e plaf a tuffarci…”. Come a dire: nulla può scalfirmi! C’è un modo per non farsi sorprendere dalla vita, per conoscerne e affrontarne i rischi.

Dopo essersi espressa così, si avvicina a un gruppo di sconosciuti (clienti del bar), si presenta e li presenta ai suoi amici, e sembra gestire la loro conversazione esibendosi in una sorta di regia dei legami: lei che nella realtà non ha avuto controllo neppure dei suoi legami di sangue! Forse vuole dimostrare che non conosce chi l’ha messa al mondo, ma nessuna estraneità la spaventa, anzi sa come gestirla! Si ritroverà a letto con uno dei ragazzi del bar, ma senza alcun coinvolgimento se non fisico. Questa è un’altra strategia che adotta Freddie: non legarsi affettivamente per non rischiare l’abbandono. 

Comincia invece a confrontarsi con l’inaspettato, l’estraniante, l’angosciante della sua storia quando decide di cercare i suoi genitori attraverso un istituto, l’Hammond Adoption Center. Le regole sono chiare: l’agenzia può inviare solo due telegrammi ai familiari. Qualora dovessero rispondere di non voler incontrare la ragazza, la Hammond non può fare più nulla.

Il padre sarà subito disponibile ad incontrarla: il ricongiungimento sembra, però, impossibile per entrambi. Il regista mette in scena il senso di colpa del genitore biologico che drammaticamente vorrebbe, d’un colpo, riparare il danno dell’abbandono, annullare la distanza con la figlia e rivendicarne il possesso attraverso il controllo. Freddie reagisce con rabbia, delusione, disprezzo. È turbata dall’invadenza e dalla forza dei sentimenti del genitore, così come dai suoi stessi sentimenti.

La spinta all’integrazione rimane comunque forte. La ragazza, infatti, sembra ormai essersi stabilita a Seoul. Comincia a familiarizzare con il Paese in cui è nata, per certi versi non appare più come una straniera, ma la sua confusione e instabilità sono ancora evidenti, così come il dolore per la perdita primaria.

La vediamo nel giorno del suo compleanno confidare ad un’amica: “In questo giorno mi faccio sempre la stessa domanda, mia madre da qualche parte starà pensando a me?”. Evade poi da questa nostalgia struggente attraverso la droga, il sesso, la ricerca erotizzata di contatti. Incontra per un appuntamento sessuale preso su Tinder un uomo molto più grande di lei, un francese che si occupa di commercio d’armi tra Francia e Corea del Sud. Risulterà, poi, questo incontro un primo anello di congiunzione tra i suoi due luoghi natii. Ma non le basta questo appuntamento sessuale con uno sconosciuto, ha bisogno ancora di trovare, alla festa per il suo compleanno organizzata dagli amici, in una fluidità di contatti erotici in cui non è importante il sesso dell’altro, quel calore che non riesce a sentire dentro di sé, mettendo in scena così anche la frammentazione del suo mondo interno.

La musica è un elemento centrale in questo film. In una delle scene che ho trovato più belle, Freddie balla in una discoteca tutta la durata di un brano di musica tecno (Anybody di Jeremie Arcache & Christophe Musset). È da sola sulla pista, si muove con grande disinvoltura, originalità e sicurezza spaziando sulla pedana sotto lo sguardo interessato e affascinato della sua amica di Seoul. E anche lo spettatore rimane affascinato, costatando la forza, l’energia e la fragilità che convivono in questa ragazza. Nel ballare mima una lotta, sferrando pugni nell’aria mentre il ritornello del brano ripete “I never needed anybody”. Mette in scena danzando una delle sue principali strategie difensive: attaccare per proteggersi e fare a meno di tutti. Forse è anche significativo che il brano sia di un gruppo francese. La musica del suo Paese di adozione la ricompatta e le permette di ritrovare la sua identità combattiva che coincide, però, con la sua dura corazza difensiva.

C’è una scena significativa a questo proposito che si svolge in macchina, dove Freddie è con il suo fidanzato francese che l’ha accompagnata a rincontrare il padre. Ad un certo punto, in modo inaspettato, gli dice, forse per scrollarsi di dosso la fragilità avvertita nello scambio con il genitore coreano: “Lo sai che ti posso far scomparire con uno schiocco delle dita?!” 

Freddie fa agli altri ciò che ha subito, attacca per proteggersi come fanno molto spesso i ragazzi segnati da una sofferenza profonda.

Vediamo Freddie dopo qualche anno dall’arrivo a Seoul, verso la fine del film, lavorare per una società francese che vende armi alla Corea. È soddisfatta perché così può aiutare, come lei stessa spiega, il suo Paese a difendersi da eventuali attacchi. Permane, quindi, un modello in cui la distruttività è un sistema difensivo necessario. D’altra parte, su di un piano pratico questo lavoro le permette di vivere tra la Corea e la Francia, e su di un piano psicologico sembra rivelare una raggiunta capacità di tenere insieme i suoi due luoghi identitari.

La musica, come si vede nella scena iniziale che ho descritto ed in quella della danza, è un elemento molto importante nel film. Freddie, che non conosce la lingua del suo Paese natio, attraverso la musica riesce a superare l’elemento di estraneità e irraggiungibilità dell’altro. La musica è un linguaggio universale, emotivo, transizionale nel senso winnicottiano, potremmo dire. Anche i neonati capiscono le melodie, prima delle parole. In un’intervista il regista dice: “Nel film la musica è un punto di contatto in cui due persone, che sono separate da una storia violenta e irriconciliabile, riescono – anche se solo per un minuto – a vedersi, comunicare e comprendersi”.

Infatti, quando il padre le farà sentire una semplice melodia che ha composto e dedicato a lei, Freddie riuscirà a comprenderlo e a ridimensionare la distanza che li ha separati e ancora li separa.

La musica ritorna anche nell’ultima scena. È passato un anno da quando la mamma biologica ha finalmente risposto alla sua lettera e ha accettato di incontrarla. Un incontro intenso, denso di emozioni così forti da non riuscire ad essere contenute neppure su di un piano fisico da Freddie, che piange e si bagna di pipì mentre stringe la madre in un lunghissimo abbraccio. Unica scena dedicata al loro incontro. Un abbraccio senza parole. Con le lacrime Freddie esprime in modo concreto dolore e nostalgia, con la pipì rabbia e rancore, sentimenti così difficili da integrare. Il regista mostra davvero di essere un profondo conoscitore del nostro funzionamento psichico e riesce, spesso utilizzando solo immagini senza parole, a farci sentire ciò che si muove nella psiche della protagonista ad un livello conscio e inconscio.