Recensioni


Adamo SMG, Valerio P, Psicoanalisi di strada. L’accompagnamento al lavoro educativo con adolescenti drop-out. Napoli: Editoriale Scientifica, 2023. Pagine 547. Euro 35,00.


Il volume si apre con un incipit di una pagina e mezza che riporta due fatti di vita quotidiana, una scritta in un bagno pubblico e l’incontro con un tassista, con uno stile essenziale e talmente coinvolgente che inchioda a sentire quanto può essere depauperante per tutta la vita non aver frequentato la scuola e non aver imparato abbastanza negli anni in cui sarebbe stato un diritto poterlo fare. Questa realtà, che tutti già conosciamo, qui diventa immediatamente viva, ‘si sente addosso’ l’utilità di imparare a leggere, scrivere e far di conto, ma anche, da subito, si comincia ad avvertire il desiderio di capire meglio la concezione teorica e i dispositivi usati per far fronte ad un compito oltremondo complesso, quello del lavoro educativo con adolescenti drop-out. Gli aspetti crudi, anche triviali, disperanti, si coniugano però con la poesia e la speranza quando nella scuola Chance si creano le condizioni per questo, un aspetto richiamato, sempre nell’incipit, dalla citazione della poetessa e scrittrice Carole Satyamurti (2003): “Ci sarà una poesia, una poesia è possibile, anche se non c’è ancora”.

Questo corposo volume fa conoscere da vicino il Progetto Chance, attuato a Napoli con lo scopo di far tornare a scuola ragazze e ragazzi che l’avevano abbandonata senza conseguire la licenza media; con le parole di Cesare Moreno, co-fondatore del Progetto: “Chance si costruisce sull’assenza da scuola,




*Rubrica a cura di C. Candelori (coordinatrice) e C. Trumello.

ma è al tempo stesso un modo per elaborarla” (pag. 400). Rilevanti energie sono state impegnate per dieci anni dai diversi protagonisti: circa 800 ragazze e ragazzi di 13-15 anni, inadempienti totali all’obbligo scolastico, docenti, maestri d’arte, artigiani, educatori, collaboratori scolastici, dirigenti scolastici, assistenti sociali, funzionari degli Enti locali coinvolti e una nutrita équipe psicologica, composta da psicoterapeuti dell’infanzia, dell’adolescenza e della famiglia, psicoterapeuti degli adulti, psicoanalisti esperti di dinamiche gruppali, specializzandi della Scuola di specializzazione universitaria in Psicologia Clinica. Il Progetto ha visto la convergenza del Ministero della Pubblica Istruzione e della Città di Napoli; i soggetti attuatori sono stati il Provveditorato agli Studi, il Comune di Napoli, l’Università Federico II di Napoli e alcune agenzie educative del privato sociale.

Pregevole e sapiente la scelta dei venti capitoli che compongono il volume, perlopiù già pubblicati nel corso degli anni in diversi testi e riviste (in appendice è fornita la bibliografia degli scritti psicologici sul progetto), qui raggruppati insieme per permettere di approfondire in modo organico:


a) i concetti teorici di base del Progetto Chance (Parte prima),

b) il versante pedagogico (Parte seconda),

c) l’impianto psicologico (Parte terza), e poi,

d) attraverso preziosi resoconti di esperienze, entrare ‘in diretta’, direi ‘dal vivo’, a conoscere Gennaro, Speranza, Lucia, Salvo, al lavoro con i loro docenti, educatori, psicologi, coordinatori (Parte quarta).


Lo stesso coinvolgente effetto è suscitato dai materiali multimediali collegati al Progetto, che ho consultato mentre leggevo il libro: la visione del film “Pesci combattenti”, l’intervista a Clotilde Pontecorvo sulla replicabilità del modello e l’intervista a Simonetta Adamo sul Progetto inducono a calarsi nell’atmosfera e nella complessa realtà quotidiana di Chance, perciò ne consiglio la visione anche prima di completare la lettura del libro. Ogni parte del volume è preceduta da una breve introduzione che permette di mettere a fuoco, a colpo d’occhio, i temi affrontati in ogni capitolo.

L’utile Prefazione di Marco Rossi-Doria, co-fondatore del Progetto, dà una prima panoramica dell’impresa Chance e consente anche di inquadrare il dramma, purtroppo sempre più attuale, della dispersione scolastica e della cosiddetta ‘dispersione implicita’, ossia di alunni che non vanno a scuola, o che imparano poco e male. Il poter avere un sintetico quadro normativo e concettuale del problema aiuta a cogliere il senso politico, culturale e sociale di Chance e della necessità di interventi come questo, che rispondono al dettato della nostra Costituzione di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (pag. 19).

Nell’introduzione dei curatori, Simonetta M.G. Adamo e Paolo Valerio, viene presentato il volume, ma soprattutto viene definita la ‘trama di riferimento psicoanalitica’ attraverso l’esplicitazione dei concetti (ripresi nel Glossario), della teoria e degli strumenti (metodo osservativo psicoanalitico e Seminari di Discussione sulla pratica di lavoro). Si ha da subito l’impressione che trovano conferma le parole di Freud: “L’uso terapeutico dell’analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l’avvenire dimostrerà forse che non è la più importante” (Freud, 1926, pag. 413). Il Progetto Chance, infatti, fa ampio riferimento all’approccio psicoanalitico, in particolare al modello Tavistock, nato in Inghilterra subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nell’ambito della psicoanalisi infantile di indirizzo Kleiniano e introdotto in Italia da Gianna Polacco Williams alla fine degli anni ‘70. I diversi capitoli assumono ed evidenziano che è l’intreccio delle componenti affettive e cognitive la precondizione che promuove l’apprendimento, oppure lo ostacola. Si assume che “le emozioni sono un elemento imprescindibile del funzionamento della nostra mente” e che “l’apprendimento è una forma di relazione” (pag. 55). In particolare si vede ‘in azione’ il modello contenitore-contenuto derivante dalla teorizzazione di Wilfred R. Bion (pag. 79), un modello talmente interiorizzato dai docenti e dagli operatori di Chance che scopriamo essere entrato nel loro linguaggio quotidiano. Interessante il capitolo in cui si può vedere come questo modello psicoanalitico sia stato utilizzato in una istituzione che si occupa di bambini di strada in Messico, a dimostrazione della duttilità ed efficacia del metodo.

Nel volume sono delineate le premesse, l’impianto psicologico e pedagogico su cui fonda la struttura del Progetto Chance. Emerge l’assoluta novità e profondità di un modello che, potendo anche fare affidamento su insegnanti “formati sviluppando pratiche didattiche non convenzionali in situazioni difficili e talora estreme” (pag. 149), è di fatto un modello formativo per affrontare il fenomeno dei drop-out e “rappresenta il tentativo di organizzare una comunità educante, ossia di costituire una rete che collega in modo consapevole e attivo tutti i soggetti che in modo volontario o involontario, formale o informale, contribuiscono al processo educativo delle nuove generazioni” (pag. 199).

La lettura produce la sensazione di essere accompagnati, e ogni tanto trascinati, in un mondo in cui si lotta sempre per trovare un senso, per fare in modo che attraverso delle buone relazioni ed esperienze queste ragazze e questi ragazzi possano riappropriarsi, almeno in parte, di quello che hanno perduto nella loro vita.

L’atmosfera è intrisa del senso di perdita, della mancanza, e non potrebbe essere altrimenti visto che il tema dominante è l’assenza (dalla scuola, della scuola), uno spazio-tempo vuoto. Un’assenza definita anche come «il dominio del non-esistente» ossia “l’ambiente nel quale centinaia di migliaia di bambini diventano vecchi ma non crescono. È l’ambiente in cui centinaia di persone, che offrono assistenza, rinunciano al tentativo di prendersi cura e abbandonano le loro professioni, […] o vanno avanti in uno stato di mortale persecuzione” (pag. 97). Con questa premessa viene raccontata la realtà che gli adulti di Chance possono osservare e affrontare, ossia che “uno spazio vuoto è, in un certo senso, uno spazio che deve essere svuotato e liberato dall’angoscia dell’inadeguatezza, dell’incapacità e del timore del confronto, del terrore della critica e dell’umiliazione”(pag. 371). Il percorso per ‘svuotare e liberare’ non è affidato a spinte spontaneistiche, anzi sono previsti strumenti raffinati che aiutano gli adulti, con cui vengono in contatto i giovani, a mantenere salda la loro funzione adulta.

Gli adulti, di fatto, continuamente devono attrezzarsi per tenere in piedi e il più possibile ‘in ordine’ il progetto di creare un’altra chance, in modo che i giovani possano abitarlo e usarlo al meglio. Perciò nella struttura del Progetto è previsto che ci siano altri adulti con cui fare gruppo per pensare insieme e poi, da qualche altra parte, ancora altri adulti con cui incontrarsi e fare gruppo. Si tratta del sistema dei “contenitori concentrici” (pag. 235): setting predisposti per “accogliere e bonificare le relazioni tra le varie Istituzioni che la includevano, con livelli crescenti di complessità e di distanza” (pag. 243). Una geniale idea quella di sforzarsi di capire come “tenere dentro” ognuno e fare in modo che ognuno si senta ‘tenuto’. Un’idea portante e uno strumento per combattere il fenomeno del drop-out, con la consapevolezza che “l’energia dirompente deve essere incanalata per evitare distruzioni” (pag. 235). E in questo senso Chance è impregnata del concetto di empowerment, che è stato tradotto con ‘capacitazione’ e ‘rendere capaci’, “espressione che si avvicina a quella napoletana di ‘farsi capaci’ (‘rendersi conto’) che contiene in sé un invito all’autoconsapevolezza e a gestirsi i problemi della vita” (pag. 172).

Nell’Epilogo, a conferma dell’approccio inter-professionale, troviamo lo sguardo di un professore inglese di Sociologia sul film “Pesci combattenti” e la riflessione di un professore di Pedagogia sociale sulle tre prospettive cui si ispira il volume: pedagogica, psicoanalitica e sociale.

Toccante il ricordo che delinea la figura di una degli artefici del Progetto, Carla Melazzini, cui il libro è dedicato. Poche pagine che restituiscono lo spessore umano e professionale di una persona eccezionale anche a chi non l’ha conosciuta e nello stesso tempo rimandano nel pensiero anche allo spessore degli altri artefici – ragazze e ragazzi compresi – di questa scuola così speciale.

Questa pubblicazione espone e propone in modo chiaro quello che a buon diritto si può definire il ‘modello Chance’, un peculiare modello teorico e metodologico di intervento, e risulta pienamente soddisfatto il proposito dei curatori Adamo e Valerio espresso nell’Introduzione: “Speriamo che questo libro contribuisca a favorire il riconoscimento dei fattori emozionali nei processi di insegnamento e apprendimento, a promuoverne lo studio sistematico e a mostrare il contributo specifico che professionisti, formati psicoanaliticamente, possono dare per favorire il benessere psichico di allievi e docenti” (pag. 46).

Oggi purtroppo il modello Chance non è più operativo. Ai docenti, agli educatori, ai responsabili politici e istituzionali, agli psicologi e ai pedagogisti il compito di conoscere il modello Chance e adoperarsi per replicarlo.

Lorenzo Iannotta

Bibliografia

Freud S (1926). Il problema dell’analisi condotta da non medici. OSF: 10. Torino: Boringhieri, 1978.


Kahn L., Che cosa ha fatto il nazismo alla psicoanalisi. Roma: Alpes, 2023. Pagine 137. Euro 15,00.


Arriva nella traduzione italiana di Riccardo Galiani e Roberta Guarnieri, per la collana “Sconfinamenti” di Alpes, l’ultimo libro di Laurence Kahn, una sofferta meditazione sulle conseguenze del nazismo che non poteva non coinvolgere (e stravolgere) la psicoanalisi, scienza del logos. Già storici come A. de Mijolla, B. Nitzschke o R. Lockot hanno raccontato le trattative che hanno condotto la società psicoanalitica tedesca, sotto la direzione di Göring, alla creazione dell’Istituto Göring, presieduto da Carl Jung. Hanno spiegato come si è fatta la scelta di escludere gli analisti ebrei, hanno documentato approfonditamente gli assassinii di tanti analisti e il vasto esodo di pionieri della psicoanalisi verso l’Ovest per raggiungere la Gran Bretagna, gli USA o l’Argentina. Ma la questione posta da L. Kahn è di un altro ordine. Kahn dimostra come la retorica nazista, appoggiandosi su teorie pseudoscientifiche biologizzanti, ha avuto la sorprendente conseguenza di modificare lo spirito stesso della psicoanalisi e la sua teoria: cercando di salvare la psicoanalisi del pervertimento nazista, gli psicoanalisti espatriati hanno contribuito a una sua metamorfosi perché a due riprese hanno dovuto rinunciare ai costrutti metapsicologici, imponendo alla disciplina una torsione teorica e clinica. Una prima volta, nel periodo tra il 1930 e la fine degli anni ’50, una corrente dominante in seno all’Associazione Psicoanalitica Internazionale ha ritenuto necessario intervenire sui fondamenti della teoria freudiana per contrastare una possibile convergenza con l’ideologia nazional-socialista. Una seconda volta, tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’90 un’altra generazione di analisti ha pensato di poter meglio andare incontro alla “causa” dei sopravvissuti della Shoah, riformulando i propri strumenti di intervento e di cura.

Potremmo subito dire che al di là della ricerca storica accuratissima, del confronto serrato con la filosofia e con la letteratura, in particolare di Imre Kersetz, la stessa Kahn definisce questo come un testo clinico che avrebbe potuto fare da introduzione all’altro suo lavoro Lo psicoanalista apatico e il paziente postmoderno (ediz. francese, 2014). Con la sicurezza concettuale che le dà la sua cultura di storica, filosofa e epistemologa, Kahn in effetti anche in questo testo riprende in maniera suggestiva i timori antichi e premonitori di Adorno riguardo al rischio di travisamento dei concetti freudiani, con il ridimensionamento della metapsicologia in favore della fiducia accordata ai feelings, ponendo la verità sotto il segno del relativismo soggettivo e la pratica sotto quello del «dialogo» e dell’empatia, diventato strumento per eccellenza che gli psicoanalisti classici avrebbero trascurato.

Nei primi capitoli ciò che Kahn ha cercato di individuare, al di là della catastrofe nelle vite individuali degli psicoanalisti dell’epoca, è il modo in cui i nazisti hanno pervertito e attaccato lo zoccolo di linguaggio in cui erano nate e si erano sviluppate la teoria e la pratica analitica (uno sconvolgimento commisurato alla neo-lingua che introdussero i nazisti e di cui Viktor Klemperer ha composto un notevole repertorio in LTI. La lingua del Terzo Reich, 1998). Molte parole del vocabolario nazista echeggiavano quelle della psicoanalisi, parole che il nazismo però deteriorava e pietrificava. Per esempio “pulsione”, in tedesco Trieb, che per lo più fu tradotta con Istinct, “pulsione di autoconservazione”, utilizzata da Hitler per giustificare la distruzione di una parte dell’umanità in nome del Lebensraum o il termine inconscio piegato nel senso di profondità notturne e demoniache della natura. Thomas Mann individua questi travisamenti già nel 1938 in Fratello Hitler o nel testo La Legge, del 1943. I concetti della metapsicologia freudiana sono così contaminati dal bios e usati in modo esteso e deleterio dai nazisti. Quando gli analisti di lingua tedesca giungono negli Stati Uniti cercano di far fronte alla marea montante di quella che appariva come una “psicosi di massa”, di affermare un’etica in opposizione alla neo-realtà nazista, concependo di fatto una teoria della vita psichica che dà la precedenza all’Io e alla sua facoltà di giudicare il reale, con una sua relativa autonomia libidica per sottrarsi a quello che viene inteso come un delirio megalomaniaco di massa di creare un nuovo mito. È l’avvento dell’Ego-psycology che Hartmann sviluppa per la prima volta a Vienna nel 1937 proprio in reazione diretta contro l’uso del termine pulsione da parte dei nazisti. Hartmann cerca di liberare l’Io dalle sue basi pulsionali e di affermare una zona franca dalla sua sottomissione all’Es, provocando così, in pratica e in teoria – ed è qui che risiede il problema – la conversione della psicoanalisi verso ciò che caratterizzerà la psicoanalisi americana nel suo insieme nelle sue diverse correnti: psicologia dell’Io, del sé ecc. Il secondo volano della riflessione è in stretta connessione con queste premesse.

Laurence Kahn non condanna, ma scusa la nuova svolta in funzione delle circostanze: la difficoltà di comprendere lo sterminio, la difficoltà del ritorno al passato nel reale attuale del transfert hanno in effetti favorito la tendenza a un ascolto che ha privilegiato le storie di vita e la loro narrazione. Kahn formula l’ipotesi che gli analisti dell’epoca non abbiano potuto esplorare il mondo fantasmatico dei loro pazienti sopravvissuti, perché catturati – paziente e analista – da una reazione alla Shoah come evento reale che appariva sorpassare ogni fantasma. Che il sadismo potesse aver giocato la sua parte, che la sessualizzazione potesse penetrare l’oblio e il non-oblio e che, senza essere nominate, anche le posizioni masochistiche potessero riorganizzare scenari di una sottomissione intollerabile, questo non può essere tenuto in conto dagli «psicoanalisti della Shoah», nota Kahn. Tutto accade come se la libido stessa, di fronte all’atrocità, fosse per loro squalificata, come se fosse indecente farla coesistere con i fatti atroci della storia. Così si giustifica la riorganizzazione del quadro analitico in tali trattamenti. A bassa voce, o a voce alta, l’argomento clinico della disorganizzazione tende a legittimare la messa fuori gioco di tutto ciò che nel dispositivo analitico potrebbe condurre alla reviviscenza nel transfert della distruttività. Laurence Kahn parla di una vera e propria capitolazione e la Shoah si trova assimilata al termine di «trauma estremo». Pensare la Shoah unicamente come trauma estremo, scrive Kahn, ha comunque permesso di pensare l’evento e, in senso analitico, di costituire una difesa delle vittime contro la possibilità di elementi di identificazione con i criminali. Ma, in questa posizione, scompare la nozione di conflitto, la costatazione che la civiltà genera l’odio della civiltà e la dimensione di una distruttività che concerne la natura umana stessa, in favore del modello dell’indicibile traumatismo e dell’ascolto delle vittime. Prevalgono allora l’irrapresentabile, la scissione, il non-metaforizzabile, la morte psichica, la nozione di “trauma estremo” non simbolizzabile se non con un approccio terapeutico che privilegia l’empatia. Si è pensato che la teoria psicoanalitica fosse troppo severa, troppo fredda, per adattarsi all’ascolto del paziente traumatizzato di Auschwitz. Nelle inchieste americane del 1961 sulla patologia del sopravvissuto, si mette a punto un nuovo modello che isola un trauma specifico che occorre ascoltare con un metodo specifico e nella pratica clinica questo comporta fare uso dell’empatia per accedere all’esperienza privata della catastrofe: inevitabile diventa il riferimento al materno da cui si attende la ricostituzione di un racconto altrimenti indicibile per favorire la sua riparazione, l’integrazione del non integrabile e sanare la scissione psichica. Ben poco resta, scrive Kahn, della complessità della vita psichica, compresa quella del sopravvissuto di cui però ci si chiede, in definitiva, con quali risorse interne sia riuscito a sopravvivere.

Questo libro di Laurence Kahn è una lezione severa su ciò che il nazismo ha fatto alla psicoanalisi e che non può che turbarci alla luce del nostro presente. Il suo impatto va ben al di là della ricostruzione di un pezzo di storia della nostra disciplina, giacché i processi che l’autrice mette in evidenza non sono purtroppo specifici del nazismo, questo libro lascia il lettore con un senso di profondo disagio relativo alla cultura dopo Auschwitz, alla civilizzazione del XXI° secolo.

Aurora Gentile