Recensioni*

Ammaniti M. Passoscuro. I miei anni tra i
bambini del Padiglione 8. Firenze/Milano: Giunti/Bompiani, 2022. Pagine 170. Euro 17,00.

Questo libro offre una testimonianza importante e profondamente sentita dell’esperienza manicomiale, tra gli anni sessanta e settanta, ancora molto connotata dalla segregazione, da metodi coercitivi e dalla disumanità con cui il malato mentale veniva trattato. Mi sembra significativo proporlo alla lettura proprio in occasione del centenario di Franco Basaglia (11 marzo 1924), che tanto ha contribuito ad iniziare un’esperienza istituzionale rivoluzionaria, complessa e dibattuta, per scardinare la cultura e quindi la gestione manicomiale, fino alla chiusura dei manicomi e fino ad ottenere, dopo un difficile iter, la legge 180 nel maggio 1978. Il libro è un romanzo appassionato, rievocativo e critico, che intreccia autobiografia e ricordi delle istituzioni in anni “sessantottini”, anni contro le istituzioni autoritarie e violente, anni in cui anche i minori venivano ricoverati in strutture speciali, anni in cui nasce anche la critica della cultura imperante che escludeva ogni malato mentale dal diritto alle cure e alla dignità come persona. Avendo partecipato proprio in quegli anni ad esperienze di emarginazione e di istituzioni segreganti, con commozione ritrovo, specie nel racconto autobiografico, lo spirito “rivoluzionario” appartenuto all’autore del libro ma anche a molti giovani che sceglievano il lavoro nelle istituzioni come una sfida di rinnovamento, cambiamento e lotta contro ogni forma di violenta imposizione e contro regole inumane: “In Italia stava prendendo corpo un forte movimento di critica verso le istituzioni manicomiali, in cui venivano reclusi indistintamente malati mentali, disabili e persone svantaggiate” (p. 7). Nel decennio e negli anni prima della legge Basaglia le esperienze antimanicomiali di operatori “basagliani” a Trento e a Trieste iniziavano ad essere note e coinvolgevano nuove leve di psichiatri e neuropsichiatri infantili che ritenevano importante andare a lavorare nelle istituzioni. Una nuova cultura contro l’irrecuperabilità di esseri umani, i libri di Goffman sulle istituzioni totali e i meccanismi della esclusione e della violenza (“Asylums”, 1961), “L’istituzione negata” di Franco Basaglia (1968) iniziavano a circolare e ad essere letti e discussi in vari ambiti universitari e conosciuti da molti giovani appartenenti a movimenti politici o culturali di sinistra.

Massimo Ammaniti ci racconta il suo percorso formativo di medico e di neuropsichiatra infantile, specializzazione legata sia a personali esperienze dolorose che segneranno la sua vita, la morte prematura della sorella per encefalite virale e la separazione dei suoi genitori, sia alle varie esperienze formative e cliniche dentro le istituzioni e alla forte spinta motivazionale: “Il desiderio di consolare era rassicurare i bambini quando erano in preda del dolore e della paura” (p. 80). Il racconto parte dall’esperienza nell’inferno “Padiglione 8”, in cui i bambini erano tenuti in totale stato di degrado e squallore e dove, come “bambini irrecuperabili”, senza stimoli sociali, affettivi e cognitivi, potevano vivere come non vivi. Il giovane neuropsichiatra, dopo una prima esperienza traumatizzante, ritorna nel manicomio e inizia con fatica, ma con determinazione, una lenta e significativa rivoluzione, coinvolgendo il personale infermieristico e anche religioso in questa sfida. Commovente è il racconto della gita al mare, a “Passoscuro”, e di altre esperienze con proposte semplici ma importanti come stimoli all’autonomia, al riconoscimento del proprio nome: la gita apre un varco non solo perché è una giornata di scoperta piacevole per i bambini, ma perché mostra al personale e ai volontari che un cambiamento può essere possibile. In tutto il libro viene sottolineato il divario tra la spinta innovativa e la rigidità mastodontica delle istituzioni, la mancanza di una visione diversa dei bisogni infantili, l’impostazione imperante basata sulla necessità dell’esclusione al posto della cura, sull’incurabilità al posto di concetti evolutivi terapeutici e riabilitativi, sulla separazione familiare e sul ricovero al posto di presenze affettive ed educative. Inoltre, nel libro viene ricordato il gran lavoro di inserimento nella “scuola di tutti” dei bambini con handicap e quindi lo smantellamento progressivo delle scuole speciali e l’istituzione di centri riabilitativi con progetti di cura e di inserimento educativo e sociale.

Accanto al racconto di quanto sia stato necessario tener viva la speranza e la fiducia nel lavoro istituzionale, Ammaniti, con gratitudine, ricorda alcune figure di maestri che via via sono stati di stimolo e fonte di conoscenze diverse dalla classica formazione psichiatrica, più legata al sintomo che alla cura, più diagnostica e meno terapeutica. Viene ricordato Bruno Callieri, “Quando Callieri parlava dei suoi pazienti mi trasmetteva tutta la sua passione e intuivo la grande attenzione con cui guardava alle loro esperienze mentali” (p. 36) e Luigi Frighi che “mostrò possibile un punto d’incontro tra psichiatria e psicoanalisi” (p. 36). In seguito, dopo la laurea in medicina, nella formazione in neuropsichiatria infantile sarà importante l’incontro con Adriano Ossicini, che aveva istituito i primi Centri Medici Psicopedagogici pubblici (1960), la formazione con Giovanni Bollea, allora illuminato psichiatra e fondatore dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile nel quartiere San Lorenzo di Roma (1960). Ammaniti, seppure con alcune riflessioni critiche, è riconoscente per tutta l’esperienza fatta nell’Istituto: sottolinea che Giovanni Bollea, se da un lato aveva introdotto la convinzione dell’utilità di trattamenti terapeutici nei confronti dei bambini disabili, tuttavia previlegiava troppo gli aspetti più riabilitativi; solo in seguito ci sarebbe stato un riconoscimento della importanza e della priorità della conoscenza del mondo affettivo e del mondo interno del bambino e della cura attraverso questa.

Seguendo l’avvincente corso dei ricordi e della storia della formazione personale, sono evidenti i costanti riferimenti a due esperienze parallele che si intersecano, arricchendosi ma anche man mano differenziandosi: da un lato l’importanza del pensiero e dell’incontro con Basaglia, la frequentazione in Psichiatria Democratica e l’incontro con Giovanni Jervis e altri militanti psichiatri e operatori impegnati a trasformare l’assistenza psichiatrica e a lavorare per l’integrazione scolastica, l’appartenenza ai giovani comunisti, l’esperienza diretta istituzionale in strutture per l’infanzia e nel servizio pubblico per la salute mentale, dall’altra l’interesse crescente per la psicoanalisi, per letture winnicottiane, l’approfondimento di autori come Bowlby, Jerome Bruner, Robert Emde, Louis Sander, Maud Mannoni, la conoscenza e l’analisi personale kleiniana, le letture bioniane. “Fu così che scoprii l’utilità della psicoanalisi persino in un ambito dominato dalla neurologia” (p. 81). “Era inevitabile che pensassi alla psicoanalisi che oltre a dar spazio alle dinamiche inconsce valorizza la sfera affettiva” (ibidem). Naturalmente nel libro vengono fatti ampi riferimenti ai testi freudiani: “Leggere articoli e libri di psicoanalisi mi aiutava a comprendere meglio quello che si agitava nella mente dei piccoli pazienti (…) e che le nevrosi degli adulti avessero origine nell’infanzia” (p. 82). Il libro si legge tutto d’un fiato e nello stesso tempo è pieno di considerazioni molto attuali relative all’odierna situazione d’impoverimento del servizio pubblico e al problema della carenza di servizi per l’infanzia. Penso che sia un’utile lettura per stimolare le giovani generazioni a tenere in gran conto il lavoro istituzionale, allo scopo di rinnovarlo, perché è un valore civile, sociale e curativo che non può essere ignorato da chi persegue la cura del paziente con disagio psichico e mentale partendo dal suo mondo interno e dalla sua realtà esistenziale. I servizi pubblici territoriali possono svolgere un ruolo importante, attraverso interventi molto articolati, garanti dei diritti di tutti, anche a salvaguardia dei valori conquistati in anni di dure esperienze, come anche questo testo racconta. Il libro termina testimoniando l’esperienza dell’insegnamento universitario nella allora nuova Facoltà di Psicologia. Contemporaneamente, per un lungo periodo, Ammaniti svolge il ruolo di primario psichiatra e ha la direzione di un Centro di Igiene Mentale, che, nel rispetto della legge 180, istituisce servizi territoriali in alternativa all’ospedale psichiatrico: “Fu per me una sfida importante. La psicoanalisi non era solo quella degli studi privati: poteva essere trasferita nelle organizzazioni curative in modo da realizzare un’accoglienza e una permanenza che valorizzassero l’identità di ogni paziente” (p. 164). Dal 1986 Ammaniti si dedica all’insegnamento universitario e alla divulgazione di autori, ricercatori e studiosi dell’infanzia (come Daniel Stern), organizza molti seminari e convegni e mantiene un grande interesse per la formazione di psicologi, psichiatri e psicoanalisti. Numerosi sono i suoi libri e i suoi articoli che testimoniano come Ammaniti abbia continuato a coniugare, nel corso del tempo, psichiatria e psicoanalisi. Attraverso la sua storia personale e la sua documentazione possiamo entrare in contatto con numerosi riferimenti storici, sociali e politici che sono appartenuti anche a molti di noi, memori di un entusiasmo per il cambiamento e per la difesa dei diritti civili e umani, con la speranza che le nuove generazioni di operatori seguano questa direzione.

Giovanna Maria Mazzoncini

Chiavegatti MG, Di Luzio G (a cura di). Il di-
ritto
di esistere. Scritti sulla Ricerca Psicoanalitica di Lydia Pallier. Roma: Avio Edizioni Scientifiche, 2023. Pagine 240. Euro 20,00.

Dalla lettura del libro in oggetto, come per altro sottolineato nella sua introduzione da Bolognini, si viene catturati dalla personalità e dal modo di essere di Lydia Pallier, che sembrano aver generato una “famiglia analitica”: quella dei suoi analizzati e dei suoi allievi. Lydia Pallier era espressione significativa di uno spirito del ‘900, caratterizzata da movimento e trasformazione teorica, clinica ed esistenziale, alla ricerca di una corrispondenza interna significativa. Sfuggita a ben due regimi totalitari e rimasta una libera pensatrice anche all’interno della casa psicoanalitica, la sua cifra erano una grande curiosità intellettuale e una estrema attenzione al paziente, misura ultima della validità della propria pratica.

Nel libro, che prende le mosse da tre interessanti introduzioni di Bolognini, Chiavegatti e Di Luzio, è incluso un racconto di tratti biografici a firma dei figli dell’analista, Antonio e Alessandra. Siamo così accompagnati con delle sobrie pennellate nella vita di una bambina nata nel 1930 all’interno di una famiglia mitteleuropea che trascorre i suoi primi anni, quelli più felici, in Grecia, al seguito del padre ambasciatore. La seguiamo nel rientro a Praga nel 1939, alla vigilia della guerra. Trascorre parte della sua adolescenza, dunque, durante la guerra e l’invasione nazista, impiegata come operaia in una fabbrica dell’industria di guerra tedesca. Colpisce l’accenno a momenti tranquilli, dopo il lavoro, in cui andava a pattinare sui laghi ghiacciati prima di rientrare a casa, e la mente va al “Diritto di esistere”. Le cose non furono più semplici dopo l’invasione Russa, con il regime comunista che non lasciava libertà neppure di scegliere quale lavoro fare che, nel suo caso, avrebbe dovuto essere fare la spia per conto del partito, trasferendosi in Grecia. Il suo rifiuto la portò ad essere sottoposta alla tortura psicologica e fisica. Fu la minaccia della morte o l’esperienza di dover convivere con continue minacce, in questo senso, che la convinsero a fuggire. Fu capace di salvarsi utilizzando lo stesso mandato ricevuto dal partito: spiegando nell’ambasciata greca, dove era andata per richiedere il visto, quale fosse la sua situazione e convincendoli a non rilasciarglielo. L’incontro casuale, poi, con un alto funzionario del partito, che la prese a ben volere, le consentì di ricevere un visto per la Francia, e così di raggiungere l’Italia dove aveva dei parenti. Si laureò in medicina, specializzandosi in oculistica e si avviò verso una prestigiosa carriera in quell’ambito; fu però l’incontro con la psicoanalisi a costituire l’ultimo movimento verso la piena corrispondenza, dal punto di vista professionale.

Nella prima parte del libro sono inseriti i principali lavori della Pallier e il suo intervento al Convegno “Fusionalità: storia del concetto e sviluppi attuali” del marzo 2019, in cui viene ribadita la differenza tra due concetti spesso erroneamente sovrapposti, quello di simbiosi e quello di fusionalità. Nel lavoro “Curiosità: conoscenza e percezioni falsificate”, mantenendo ferma l’importanza del contributo di M. Klein rispetto alla conoscenza cosciente diretta, propone come sia altrettanto fondamentale la conoscenza empatica e intuitiva che ha luogo se il processo di individuazione rispetta le fantasie fusionali. “Fusionalità, agorafobia, claustrofobia e processi schizo-paranoidei” propone un ampliamento del modello della Klein, che prevede la posizione schizo-paranoidea e quella depressiva, con l’inclusione della fusione: “ho potuto constatare che i tre momenti: fusionale, schizo-paranoideo e depressivo possono alternarsi ma anche coesistere in un equilibrio più o meno soddisfacente, e che il completo fallimento delle fantasie fusionali accentua e rende più patologici i processi schizo-paranoidei e l’identificazione proiettiva strettamente collegata ad essi” (p. 43). “Il bambino ‘mostruoso’ come minaccia all’integrità del Sé” propone come un aspetto del Sé carico di ferite narcisistiche generi quello che l’Autrice chiama bambino rifiutato; il ripetitivo in analisi è la manifestazione di questo aspetto del Sé accompagnato da una timida richiesta di accettazione e riparazione. Nel lavoro vengono affrontate le implicazioni tecniche derivanti da questa teorizzazione. In “Mania e insufficiente strutturazione del Sé” Pallier si occupa del passaggio dalla depressione alla mania in pazienti con un Sé scarsamente coeso, individuando attraverso tre casi clinici i contenuti che caratterizzano l’insorgere della fantasia maniacale.

La seconda parte del libro propone gli scritti dei membri della sua famiglia analitica, che riprendono e sviluppano ciascuno uno dei “temi” proposti nella prima parte, e si chiude con due lavori che si concentrano sulla eredità della Pallier negli analisti e negli allievi. In “Variazioni sul pensiero di Lydia Pallier. Contenimenti generativi oggetto-sé” A. Lombardozzi riprende i punti cruciali del pensiero dell’analista, offrendoci una puntuale rassegna dei concetti chiave espressi nella sua produzione, per arrivare a proporre un modello integrato che tiene conto dell’ottica kohutiana e bioniana. Secondo Lombardozzi la presenza dell’analista, in relazione alle dinamiche di transfert e oggetto-sé idealizzato risponde ad un bisogno di contenimento che, attivando la funzione alfa, esita in un contenimento trasformativo, favorendo lo sviluppo di parti creative del Sé. Viene dunque teorizzato l’oggetto-sé alfa/gamma generativo.

“Il diritto all’esistenza” è il lavoro proposto da C. Pirrongelli, un testo che ci arriva intimo, affettivo, di quell’affettività che Pirrongelli attribuisce alla sua maestra “la persona più lontana che io abbia mai incontrato da una affettività artificiosa e bugiarda. Era addirittura troppo sincera, onesta con se stessa e con chiunque avesse davanti” (p. 96). Interessante inoltre il dialogo con le neuroscienze che Pirrongelli propone nelle ultime pagine del suo scritto.

“La fantasia del bambino ‘mostruoso’ trent’anni dopo” è il lavoro di M.C. Chiavegatti, in cui viene evidenziato il modo autentico, originale e sincero di fare analisi della Pallier, che ha, secondo l’autrice, avuto un peso nella cura della fantasia del bambino “mostruoso”. Chiavegatti sviluppa inoltre, a partire dalla riproposizione dei concetti di Pallier, una riflessione sul trauma e sulla scissione, nonché sugli effetti nel Sé e sulle implicazioni cliniche di questa fantasia. Ci piace riprendere l’importanza che viene attribuita alla ricostruzione della fantasia inconscia del bambino “mostruoso” nei passaggi storici, emotivi e transgenerazionali, riflesso, crediamo, del movimento esistenziale della Pallier.

“Sindrome del millantatore e deficit del Sé” è il contributo di G. Di Luzio, che dà forma scritta ad un tema a cui la Pallier teneva e di cui parlava, ma su cui non scrisse mai, la “sindrome del millantatore”, appunto, proponendo poi alcuni suoi sviluppi concettuali. Dopo aver presentato il pensiero di Pallier (a proposito del fenomeno di “sentirsi un bluff”), viene descritto il deficit del Sé sottostante tale sindrome. Presentati gli studi non analitici a questo riguardo, Di Luzio torna sull’approccio analitico e dà una definizione del concetto di Sé in questa sindrome.

Intensamente stimolante e ricca è l’opportunità che F. Giordo ci offre di immergerci nello stile analitico di Pallier passando dall’esperienza dei suoi pazienti, riportata attraverso vignette cliniche, alla sua di analista-paziente della Pallier, che generosamente condivide con noi. Intenso e di difficile condensazione, “La dimensione fusionale nell’eredità analitica” propone “l’esperienza complessiva che lo psichico dell’analista evoca nel futuro analista già nella forma artigianale con cui questi nell’emulazione percepisce, seleziona ed interpreta gli eventi della seduta” (p. 177).

Il libro termina con “‘Essere psicoanalista’ Lydia Pallier: un testamento vivo di persone al lavoro. Laura, Mariaclotilde, Valentina, Luigi, Ludovica, Donatella e altri tanti, tanti, altri” di C. Busato Barbaglio. È questo un racconto a più voci di come le teorizzazioni della Pallier trovassero una dimensione soggettiva ed esperienziale nella relazione con i suoi allievi e con i suoi analizzati.

Cono Aldo Barnà, Chiara Benedetti