Psicoanalisi oltre il divano

Introduzione

maria paola ferrigno

L’idea da cui prende avvio questo Focus è quella di presentare alcune esperienze nate dalla ‘esportazione’, in contesti sociali, educativi e sanitari, del pensiero, del modello e del metodo psicoanalitico.

Fin dai suoi inizi il mondo psicoanalitico si è interrogato sulla possibilità di affrontare, con un pensare psicoanalitico, fenomeni e contesti diversi da quelli del trattamento psicoanalitico.

Già Freud riconosceva che:

“Il campo di applicazione della psicoanalisi è altrettanto vasto quanto quello della psicologia” (1924, pag. 137)

anche se ne sosteneva la problematicità e i limiti. Egli considerava, per esempio, l’analisi infantile come:

“[…] Un trattamento che unifica l’influenzamento analitico e l’azione educatrice […] svolta da analisti pedagoghi […]” (Freud, 1926, pag. 413-414).

Alcuni anni dopo, sarà Melanie Klein, con la sua esperienza pioneristica e geniale dell’analisi infantile, a dimostrare il valore squisitamente psicoanalitico del suo lavoro. Dopo di lei, Wilfred Bion, con l’impiego del metodo psicoanalitico nel trattamento degli psicotici e in situazioni di gruppo (Bion, 1961), ed Eliott Jaques (Jaques, 1990), con l’uso del modello osservativo psicoanalitico in contesti sociali più ampi, apriranno nuove frontiere di sperimentazione e ricerca.

La psicoanalisi internazionale, a partire dagli anni ’60, ha ripetutamente esplorato la possibilità di utilizzare lo strumento psicoanalitico in contesti differenti da quelli della cura psicoanalitica strettamente intesa, aprendo, attraverso molteplici esperienze, a riflessioni teoriche, ed anche tecniche, di indubbio interesse (Klein et al., 1955; Mannoni, 1964; Racamier, 1970; Green, 1970; Pagliarani, 1977; Codignola, 1977; Speziale Bagliacca, 1980; Ardizzone e Carbone, 1991).

La stessa rivista Richard e Piggle vi ha dedicato una certa attenzione nella Rubrica ‘Interventi nelle istituzioni’ (Grauso, 2001; Micanzi Ravagli, 2001; Alliora, 2001; Grossi, 2003; D’Agostino, 2003) proponendo esperienze, in contesti diversi dalla cura analitica, che hanno usato un ‘vertice’ psicoanalitico per leggere, oltre la dimensione sintomatologica, il significato emotivo profondo del dolore mentale.

Ciò che è stato sottolineato da ciascun autore è l’importanza dell’assetto della mente del terapeuta che, unito a un modello teorico di riferimento, consente di mantenere quello che Bion (1990) ha chiamato ‘il vertice interno, punto di vista’ psicoanalitico per leggere e comunicare l’esperienza a cui ci si riferisce.

La riflessione che sottende le esperienze a cui in questo Focus si fa riferimento ha, alla base, un interrogativo: come può il metodo psicoanalitico essere fruttuosamente utilizzato fuori dalla stanza di analisi?

Le esperienze della ‘Psicoanalisi oltre il divano’ descritte nel Focus riguardano percorsi del prendersi cura realizzati in ambiti differenti da quelli della consultazione e della cura nella stanza d’analisi, e si svolgono con modalità diverse dal rapporto duale a cui abitualmente la terapia psicoanalitica si riferisce. Tutte, però, mantengono una modalità di osservazione e un setting che rimandano a un modello teorico e a una metodologia derivati da una prospettiva psicoanalitica e permettono di utilizzare la psicoanalisi anche come ‘oggetto sociale’.

Si tratta di esperienze risultate particolarmente fruttuose perché hanno offerto nuove aperture, nuove opportunità e modalità del prendersi cura della vita emotiva in contesti dove i soggetti che li abitano, per varie ragioni, non possono accedere a una terapia psicoanalitica classicamente intesa.

Negli interventi del Focus si fa riferimento a un prendersi cura che ha alla base il modello psicoanalitico che fonda le sue radici nel pensiero di Melanie Klein e degli autori post kleiniani, e che, nelle esperienze descritte, ha prodotto significativi sviluppi degli stati emotivi delle persone a cui è stato rivolto.

Le esperienze presentate, che hanno trovato un’occasione di interessante e ampio confronto in un recente Convegno AIPPI,1 hanno alcune specificità in comune.

La puntuale definizione di un setting chiaro e coerente, necessario per mantenere un vertice psicoanalitico. Il setting viene considerato sia nella sua qualità di cornice organizzatrice – derivata da un costrutto teorico che garantisce un particolare assetto mentale dell’operatore – sia come condizione formale esplicita, entrambe espressione di un modo di lavorare psicoanaliticamente orientato. Esso, pur “nella sua doppia iscrizione di realtà interna ed esterna” (Racamier, 1990, p. 1180), si configura come un fatto mentale e il rigore dell’assetto mentale interno è elemento garante per mantenere un modo di rapportarsi analitico pur nell’ambito di contesti molto diversi tra loro (Ardizzone, Carbone, 1991; Box, 1985).

• La capacità osservativa degli aspetti verbali e non verbali e un ascolto attento, espressioni con cui intendiamo una funzione psicoanalitica della mente che rimanda alla funzione contenitore/contenuto descritta da Bion (1961): essa comporta un’attitudine al contatto di una mente con un’altra mente e dispone di un modo psicoanalitico di pensare e di osservare i fenomeni in modo che, attraverso quel particolare tipo di ascolto – che implica anche l’uso dei propri sentimenti – sia possibile comprendere e ricostruire i processi mentali.

• La possibilità di offrire all’esperienza un ‘secondo sguardo’ all’interno di un gruppo – o in una supervisione individuale – uno spazio riflessivo ‘terzo’ dove riflettere sull’esperienza osservata e dove possa più agevolmente nascere il simbolo, il pensiero e la capacità creativa, elementi indispensabili della cura.

Da queste premesse risulta evidente che gli operatori coinvolti in tali esperienze sono portatori di una formazione alla percezione psicoanalitica (Speziale Bagliacca, 1980; Milana, 2009), hanno svolto uno specifico training e maturato un assetto emotivo e uno stato mentale dove l’elaborazione dei sentimenti evocati nel controtransfert rimane un importante strumento di decodificazione, comprensione e trasformazione degli stati emotivi in campo.

In tutte le situazioni che vengono descritte, l’esperienza dell’Infant Observation – uno degli apprendimenti alla base del training secondo il modello Tavistock – rappresenta uno strumento prezioso per imparare ad osservare i fenomeni emotivi individuali e il loro svolgersi nella relazione con il mondo. Potremmo pensare a tale particolare modo di osservare come a un ascolto attraverso lo sguardo, un modo di osservare la realtà aperto alle risonanze emotive, che nascono dal campo osservato, nell’intento di trovare un possibile collegamento tra la realtà storica e la realtà interna di ciò di cui intende occuparsi.

L’osservazione e la successiva elaborazione del pensiero che ne deriva possono assegnare all’esperienza stessa un nuovo senso e promuovere, nei soggetti a cui è rivolto, una maggiore comprensione di se stessi, della propria storia e del mondo. L’obiettivo è offrire ascolto e accoglienza alle aree traumatiche che bloccano ogni forma di libertà emotiva e di piena esistenza, affinché ciascun soggetto coinvolto possa evolvere verso una possibile ‘proprietà di se stesso’, trovare una possibile autenticità, verità e libertà, o, almeno, qualche frammento di essa che renda la vita di ciascuno più vivibile.

In tali esperienze – potremmo dire – il modo di cercare e di comprendere è di per sé un fattore terapeutico tanto quanto la possibilità di trovare quello che si sta cercando.

Mi piace qui ricordare i preziosi contributi politici di Hanna Segal sull’importante ruolo che le idee psicoanalitiche possono svolgere non solo per la comprensione umana ma anche per l’osservazione e la descrizione dei fenomeni socioculturali in cui viviamo. Hanna Segal, nel suo importante lavoro Il silenzio è il vero crimine (Segal, 1987), ha sostenuto che gli psicoanalisti devono abbracciare il ruolo di cittadini, come una sorta di Giano bifronte che guarda contemporaneamente all’interno, verso la mente individuale, e all’esterno, verso la cultura umana in generale (Bell, 1999). Sembra evidente come anche questa sia una estensione di un modo psicoanaliticamente orientato per osservare il mondo ed entrare in relazione con i fenomeni che lo attraversano. Anche se Segal si riferiva alle tragedie belliche del suo tempo, le sue parole rimangono pertinenti a molte situazioni che oggi stiamo affrontando: le devastanti guerre di cui siamo spettatori spesso troppo passivi, la sofferenza della Terra di cui siamo spesso indifferenti complici e la sofferenza delle donne e degli uomini, sofferenze individuali e sofferenze collettive, quelle visibili a tutti e quelle che rischiano di rimanere inosservate.

Come agenti della cura, consapevoli della dimensione etico-affettiva della nostra disciplina, orientati a comprendere i processi creativi e distruttivi della mente individuale e dei gruppi, abbiamo pertanto anche la responsabilità di pensare alla natura e cultura del mondo in cui viviamo, e questo mi pare in piena concordanza con quanto Martha Harris sosteneva nel suo affermare che:

“Le idee psicoanalitiche debbono viaggiare e trovare dei terreni fertili in cui fiorire” (Polacco, Spiweb, 2021).

Sappiamo che il pensiero e il simbolo – quello artistico e poetico ed anche quello della cura – come anche una comunità fondata su legami condivisi, aprono la strada alla curiosità e alla elaborazione creativa che consente la rappresentabilità e una possibile bonifica di stati mentali altrimenti non elaborabili.

Questo è ciò che intendiamo con ‘dimensione artistica e creativa’ del prendersi cura ispirata al metodo psicoanalitico.

L’Infant Observation ci ha aiutato a comprendere come, a fronte delle prime esperienze di relazione con una madre che lo ascolta, comprende e risponde al suo bisogno, il neonato possa affrontare l’insieme caotico di sensazioni e percezioni psicosensoriali misteriose, soverchianti e dolorose sperimentate nel corpo per acquisire la capacità di avere fiducia.

Quando le cose vanno bene, attraverso la ripetuta esperienza di essere ascoltato dalla madre che lo accoglie e che porta sollievo e senso ai suoi bisogni, il marasma psicosensoriale collegato alla fine della condizione fetale, potrà trasformarsi in capacità di attendere fiducioso ciò che verrà. Egli costruirà quella funzione interna ‘contenitore/contenuto’ (Bion, 1961) che, sviluppandosi, gli permetterà di affrontare anche i difficili transiti che la vita gli presenterà.

Quando l’ambiente materno primario non è stato adeguato ai bisogni del neonato e non ha potuto costituirsi l’oggetto perduto, che ha la funzione di contenere e produrre significazioni, o quando esperienze traumatiche sono intervenute distruttivamente ne può derivare il caos.

Ogni sofferenza emotiva è la conseguenza di un trauma o una deprivazione, e il lavoro di ogni relazione del prendersi cura si rifà a ciò che una madre, emotivamente impegnata, fa con il suo neonato cercando di accogliere e contenere le proiezioni, la rabbia, l’odio e la disperazione.

Nel corso dello sviluppo, ogni essere umano incontra lutti, perdite, rinunce ma anche piccoli o grandi traumi: se troverà ascolto e aiuto ogni esperienza traumatica potrà essere elaborata. Se, al contrario, non riceverà ascolto e l’esperienza di mancanza comporterà una minaccia per l’Io, essa produrrà rabbia, odio, aree non simboliche che ostacoleranno lo sviluppo e comporteranno chiusura, ritiro e povertà emotiva.

La sofferenza con cui entriamo in contatto quotidianamente, non solo come agenti della cura ma anche come individui sociali, è una sofferenza che deriva da esperienze traumatiche o deprivanti.

Come sappiamo, il fine di ogni intervento di cura è liberare, attraverso nuove relazioni oggettuali, quel nucleo di possibilità rimaste imprigionate nelle narrazioni difensive dominanti post traumatiche.

Può avvenire, così, il necessario passaggio dalla logica della colpa (propria o altrui) a quella della responsabilità tragica, una posizione matura profonda – peraltro instabile – che si confronta con la sofferenza dell’ambivalenza, dell’incertezza e della fatica di pensare al di là di ogni illusione, impegnata a cercare un possibile equilibrio – anch’esso instabile – tra realtà e desiderio, tra piacere e dispiacere.

Anche il lavoro della cura, come quello della madre con il suo infante, è volto a favorire, in parallelo alla introiezione di una presenza assegnatrice di senso, l’organizzazione di una funzione interna capace di promuovere lo sviluppo della capacità di pensare. In tal modo, pur all’interno delle inevitabili e fisiologiche oscillazioni, quando le cose vanno bene, sarà possibile ridurre la necessità di mettere in campo meccanismi difensivi primitivi che non consentono lo sviluppo di una vita più piena di significato e consapevolezza, maggiormente intrisa di umanità e più autenticamente migliore.

Come individui, nella nostra funzione di agenti della cura ma anche come abitanti del mondo, siamo chiamati ad operare ogni possibile intervento per la comprensione umana che consenta di ri/prendere contatto con la fiducia originaria in un oggetto che riconosca i bisogni e li accolga, al fine di poter ri/trovare qualcosa che è già stato atteso, cercato anche se non sempre trovato e che consenta di venire a patti e riconciliarsi con la realtà permettendoci di sentire di avere una casa nel mondo.

La nostra esperienza ci ha insegnato che lo strumento dell’ascolto analitico, con le caratteristiche a cui abbiamo fatto riferimento, può proficuamente spostarsi ‘oltre il divano’, trovare un’efficace estensione in contesti psico-sociali portatori di sofferenza e favorire, attraverso il contenimento e l’assegnazione di senso, processi integrativi che aprano a nuove risorse interne. Abbiamo anche potuto assistere a come l’impiego di un pensare e osservare psicoanalitico abbia operato un fruttuoso cambiamento nei contesti in cui si è svolto, promuovendo, anche nelle Istituzioni e nei gruppi di lavoro, una maggiore e più profonda comprensione della sofferenza emotiva.

Siamo fiduciosi che ciò possa emergere, con buona evidenza, dalle esperienze che verranno presentate in questo Focus.

È però necessario che chi si occupa della cura metta in campo, con metodo e creatività, continue risorse di pensiero e di immaginazione per accogliere gli esiti delle esperienze traumatiche e potere, anch’egli, continuare a pensare: a fronte di ciò, quello che ho chiamato il secondo sguardo, la presenza di un gruppo, uno spazio ‘terzo’ di riflessione, diventa parte ineludibile anche dell’esperienza ‘oltre il divano’, come vedremo.

Con i vari contributi di questo Focus, ci proponiamo di raccontare alcune esperienze ‘oltre il divano’ realizzate con persone che vivono situazioni di difficoltà molto diverse fra loro, nel desiderio di evidenziare come il pensare psicoanalitico possa tradursi in un ‘fare’ e spostarsi fruttuosamente su territori psico-sociali.

Le esperienze raccontate sono brevi stralci di storie dove lutti e perdite ricorrono, e dove i vissuti delle persone sofferenti trovano un’intensa corrispondenza nelle esperienze controtransferali degli operatori.

Richiamando le parole di Paul Ricoeur, “La vita: un racconto in cerca di un narratore” (Ricoeur, 1994), quelle che i vari contributi propongono, attraverso le diverse narrazioni, sono le storie che gli autori hanno narrato – e in parte vissuto – insieme alle persone che hanno incontrato.

Abbiamo imparato, come scrive Karen Blixen (1937) che ‘ogni dolore può essere sopportato se lo si narra o se ne fa una storia’, facendo i conti con i limiti che, anche, ne definiscono il senso.

Il contributo di Simonetta Adamo sul Tempo Speciale ripercorre la storia di questo intervento fin dai suoi esordi, descrivendone le progressive evoluzioni, anche metodologiche, in un costante work in progress conseguenza della sua diffusione e realizzazione in contesti culturali e sociali differenti. La descrizione storica, i costrutti teorici su cui l’intervento si fonda e gli accorgimenti metodologici che, nel tempo, vengono definiti, sono accompagnati da brevi stralci delle esperienze, suggestive immagini che, mentre danno ritmo allo scritto, portano in un commovente contatto con il vivo dell’esperienza. La sua narrazione descrive, con un linguaggio evocativo, come il Tempo Speciale possa riattivare risorse, sia nei bambini che nelle famiglie e negli operatori, per un’utile trasformazione personale e delle relazioni, riavviando uno sviluppo bloccato per qualche difficoltà specifica o per un disagio ambientale.

Come l’autrice ben descrive, è un intervento che, supportato dagli opportuni e necessari contenitori, fondati su puntuali assunti teorici psicoanalitici, ha un’ampia possibilità di diffusione. Le pratiche del Tempo Speciale hanno suscitato un ampio, talvolta acceso, dibattito nella Comunità psicoanalitica ed anche per questo ci auguriamo che il lavoro presentato in questo Focus sia occasione per stimolare un nuovo e proficuo interesse di approfondimento e confronto.

Nell’intervento del Fiabare, un percorso il cui utilizzo favorisce una funzione di alfabetizzazione delle emozioni in contesti clinici particolarmente delicati, le autrici descrivono come l’esperienza proposta si intrecci fruttuosamente con il complesso e spesso doloroso processo di riabilitazione di bambini nati con atresia esofagea. Il racconto, che si dipana esso stesso come una fiaba, ricco di immagini altamente evocative, ben mostra come l’uso delle fiabe, ‘sorelle semplici dei miti’, riesca ad essere uno strumento che apre a una comprensione emotiva e, in parallelo, alla facilitazione della comunicazione di contenuti dolorosi di mente e corpo che la cura di tali condizioni patologiche comporta sia nei bambini che nei loro genitori.

Assistiamo, attraverso la descrizione dell’esperienza, a come l’ambiente medicalizzato, inevitabilmente freddo, si scaldi di pathos ed anche di ethos nel delicato avvicinamento ai piccoli pazienti e ai loro genitori, in un puntuale intreccio tra la dimensione ludica e l’opportunità di esplorare le esperienze traumatiche e la loro componente transgenerazionale.

Vedremo come il percorso di sostegno alla maternità fragile rappresenti una importante opportunità quando la già complessa condizione della maternità trova ulteriori ostacoli, interni ed esterni. L’esperienza che Addabbo e Dal Prà descrivono prevede una diversificata gamma di interventi, offerti nella quotidianità della vita domestica, per un sostegno della genitorialità, a partire dagli ultimi mesi di gravidanza o subito dopo il parto. Si tratta spesso di interventi apparentemente molto semplici ma che acquistano una profonda valenza di aiuto in situazioni dove siano presenti fattori di rischio – sanitari, clinici, psicosociali, transgenerazionali – che possano interferire sulla salute e il benessere sia del nuovo nato che della madre. Le Autrici evidenziano come gli interventi proposti, declinati in uno spazio e tempo rigorosamente scanditi, possano rafforzare la qualità della relazione madre - bambino permettendo alle risorse interne di madri in difficoltà di attivarsi fruttuosamente e, al contempo, rappresentino un importante intervento di prevenzione. Le storie di Alina, di Ana e di Esmeralda ben descrivono, nella qualità della narrazione, la delicatezza con cui ogni intervento è stato realizzato e ci rendono partecipi delle modalità con cui le operatrici, ‘vicine e, al contempo, sulla soglia’, avvicinano le madri e le coppie di cui si occupano.

Il lavoro con persone migranti, un tema di sempre maggiore attualità per le diverse realtà migratorie che oggi si presentano e che ci chiamano a sempre nuove elaborazioni, viene descritto in alcuni dei contesti in cui si è svolto. Accompagnati dalle riflessioni delle autrici, assistiamo all’incontro con due giovani preadolescenti che portano, all’interno di un mandato transgenerazionale, una sofferenza che è anche segnale, interno ed esterno, del difficile incontro tra diverse culture e che sembra comportare un intoppo al loro transito adolescenziale. Possiamo poi percorrere il lavoro svolto nella scuola, dove la presenza dell’osservatore apre, nel gruppo, alla curiosità degli insegnanti ma anche degli studenti e favorisce un utile intreccio di comprensione reciproca smorzando, al contempo, gli aspetti difensivamente conflittuali. Infine, siamo chiamati a conoscere il lavoro con un gruppo di donne rifugiate con le quali la funzione dell’osservatore favorisce uno spazio di accoglienza dove l’emergere delle fantasie e dei fantasmi, che accompagnano l’esperienza migratoria, dà spazio alla narrazione e condivisione di dolorosi e traumatici vissuti, stemperando il sentimento di solitudine e aprendo a una fruttuosa convivialità.

Ognuno dei diversi setting descritti mette in evidenza come un ascolto ispirato ai modelli psicoanalitici possa avviare significativi cambiamenti in realtà gruppali particolarmente complesse.

Concludo la presentazione del Focus con una breve citazione di Thomas S. Eliot (1943) che mi pare, al contempo, un monito e un augurio:

“Non smetteremo di esplorare. E lo scopo della nostra ricerca sarà tornare nel luogo da dove siamo partiti e conoscerlo per la prima volta. Attraverso una porta sconosciuta, di cui conserviamo traccia”.

Riassunto

Dopo un breve excursus sulla letteratura psicoanalitica che affronta, da diverse prospettive, l’estensione del lavoro psicoanalitico a contesti più allargati, l’autore si propone di affrontare la questione di come il lavoro psicoanaliticamente orientato possa fruttuosamente spostarsi fuori dalla stanza d’analisi, ‘oltre il divano’. Vengono indicate alcune specificità indispensabili – la metodologia di lavoro e la formazione degli operatori – filo rosso che accompagna e collega tutte le esperienze che il Focus descrive. L’autore sostiene che l’impiego di un pensare e osservare psicoanalitico possa operare un fruttuoso cambiamento nei contesti in cui si svolge e promuovere, anche nelle Istituzioni e nei gruppi di lavoro, una maggiore e più profonda comprensione della sofferenza emotiva.

Parole chiave

Tempo speciale, migranti, sostegno alla maternità, fiaba.

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Maria Paola Ferrigno

Neuropsichiatra infantile, Membro Didatta AIPPI

Membro Ordinario SPI e IPA

Indirizzo per la corrispondenza/

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Corso Dogali, 6

16136 Genova

E-mail: mariapaola.ferrigno@spiweb.it

1Psicoanalisi oltre il divano. Nuove metodologie e contesti applicativi. Roma, 11 novembre 2023.