Madre

Regia di Bong-Joon-ho (2009)

giovanna maria d’amato

La madre di cui parla il film non ha altro nome che questo: madre, una qualifica che da aggettivante diventa soggettivante, o possiamo dire un termine che nella sua generalità ingloba l’individuo a cui si attribuisce, appiattendo tutto il resto che definisce una persona, nella qualità pervasiva del materno. La scena d’apertura mostra una figura minuta di donna, con un’espressione sul volto tra il guardingo e il dolente, e non manca di una certa grazia inebetita mentre accenna una danza sullo sfondo di una distesa di erba bionda carezzata dal vento, e sembra chiusa in un suo sogno misterioso che potrebbe anche essere un incubo. Il figlio, un giovane adulto con l’aspetto di adolescente e la testa di bambino, di cui lei si prende cura in solitudine, è la sua ragione di esistere, la sua felicità feroce e disperata; se il cervello del giovane è rimasto intrappolato nelle nebbie dell’infanzia, lei è beata della sua bellezza: “I suoi occhi sono un’opera d’arte – dice – come quelli di un cervo”. La madre, conviene chiamarla anche noi così, provvede alle necessità di Do-joon vendendo erbe medicinali e praticando di nascosto l’agopuntura, illegalmente perché senza licenza. Lo nutre scegliendo per lui i bocconi migliori, gli somministra la medicina come si fa con un bimbo piccolo, versandogli in bocca il contenuto della ciotola mentre lui orina contro un muro con aria distratta rispetto a quello che gli accade, restando poi a guardare assorta, e come affascinata, la sua pipì, su cui passa un piede per strofinarla sulla terra, non sappiamo se con l’intento di renderla meno evidente o di beneficarne il suolo. Il giovane vive alla giornata, spesso è con un amico che un po’ gli fa da modello, un po’ lo utilizza da spalla per i piccoli traffici con cui si organizza la vita: la madre non vede di buon occhio questi rapporti che, mentre lo introducono alla pericolosità della vita, lo allontanano da lei. La sessualità naviga in acque sotterranee per la mente di fanciullo in un corpo di giovane maschio, in una confusione dove donna e madre non si distinguono, tra occhiate date e ricevute con le coetanee in cui si mescolano eccitazione, persecutorietà, attrazione. All’amico che gli chiede con scherno se ha mai dormito con una donna risponde che sì, lo ha fatto, con sua madre. Lo vediamo poi in una scena iconica che, pur nella sua differenza con le scene di madonna col bambino, evoca come quelle qualcosa di sacro, nella perfezione della simmetria e nell’aura di serena intimità, mentre giace tranquillo accanto a lei con la mano poggiata sul suo seno. Proprio come un bambino sazio. Solo che sono due corpi adulti: l’uno a tratti rivendica la sua adultità - Perché mi tratti sempre come un bambino? So mangiare da solo; l’altra sembra quasi compiacersi segretamente della minorità che lo consegna al suo dominio esclusivo e appassionato. Si può quasi affacciare alla mente dello spettatore l’idea che possa nascere proprio in questa esclusiva passione della madre per il figlio, che non lascia spazio al bambino di esistere, lo sbarramento allo sviluppo del pensiero che ha fatto di Do-joon un ritardato. Qui viene in mente J. Kristeva,1 quando dice che,

“pur essendo il prototipo della passione umana, la passione materna è anche il prototipo del lasciare andare la passione che permette al soggetto parlante di prendere le distanze rispetto ai due aguzzini della psiche umana che sono anche aiuti della passione: le pulsioni e l’oggetto”.

In questa relazione non è avvenuto quel necessario “spassionamento” (ancora Kristeva), che permette al bambino di sostituire al piacere che trae dal corpo di sua madre, il piacere di pensare, prima con lei poi da solo.

La tragedia esplode quando il giovane viene accusato della morte di una ragazza del villaggio, assassinata e posta poi in bella mostra, sul tetto di una capanna, come a denunciare il misfatto o a chiedere aiuto. Vediamo allora scendere in campo la madre pronta a lottare con le unghie e con i denti per lo scagionamento del figlio, il suo ragazzo che non può essere un assassino. Intorno a lei gravita un universo povero di umana pietà: una polizia annoiata e corrotta, poco propensa ad accogliere l’accorata protesta della donna di fronte alla possibilità di risolvere velocemente un caso di brutale omicidio; una generazione di giovani ossessionati da una carnalità smodata e priva di senso, non molto diversa da quella ignara e spietata del giovane ritardato; ragazze sole e vecchie alcolizzate. Sullo sfondo un paesaggio scarno e desolato, dove la bruttezza dei luoghi di vita delle persone, dai tuguri sovraffollati e sporchi all’anonimo squallore di uffici pubblici e luoghi di ristorazione, si intreccia con una natura disordinata e rigogliosa, selvaggiamente bella, a tratti colma di spaventoso mistero. La scena sembra immergere lo spettatore nell’ambiente primordiale dell’esistere, dove la ferocia del sentire non è stata ancora temperata dalla civilizzazione dell’umano legame, il contratto psichico in cui l’io riconosce l’altro e si riconosce nella sua soggettiva separatezza.

“La maternità – dice Kristeva – mette la donna di fronte a una nuova esperienza dell’oggetto: il bambino […] è quell’aurora dell’alterità nella quale il narcisismo femminile trova un’ultima opportunità per liberarsi del ripiegamento su di sé e sulla madre per votarsi all’altro: croci e delizie della maternità” (2000, pag. 172-173).2

O potrebbe esserlo. Ma non è il caso della nostra Madre: immersa nel suo legame arcaico col figlio trae forse proprio da questo risorse inusitate per mettersi a caccia dell’assassino e provare l’innocenza del ragazzo, dimostrandosi molto più astuta della polizia e finendo con arrivare lei sola all’unico testimone, il quale però, ignaro dell’identità della donna, le svela la cruda verità che conferma la colpa del figlio. Di fronte alla realtà dei fatti la madre non si rassegna: se il fine ultimo è difendere il suo cucciolo la madre arcaica non esita a divorare il nemico, divenuto tale in quanto testimone, e la piccola donna con spietata quanto immediata efferatezza uccide il vecchio che ha la colpa di aver visto troppo. La cinepresa inquadra la donna, dopo l’assassinio, sullo sfondo di un campo simile a quello della prima scena, su cui muoveva i passi inebetiti di una danza: si asciuga lacrime rabbiose con le mani sporche di sangue, spalmandone le tracce sul viso, che si colora di scuro, come quando aveva spalmato sulla terra col piede la pipì di cui il figlio si era impudentemente liberato contro un muro. Sempre come nella scena iniziale il vento le muove i capelli e muove l’erba, lei sembra accennare parole che non si distinguono: una preghiera? una richiesta di perdono? O forse l’affermazione di una volontà feroce che non ammette ostacoli.

Intanto la polizia ha trovato un altro colpevole, ancora un ritardato, un giovane down su cui sono state trovate tracce di sangue della ragazza, e questo scagiona di colpo il figlio della donna, che intanto con fredda perizia ha provveduto a distruggere ogni prova del suo personale delitto. Molto toccante è la scena in cui la madre chiede e ottiene di parlare col nuovo colpevole designato: il ragazzo appare, come suo figlio, smarrito, confuso su quanto gli sta accadendo, ma totalmente incapace di difendersi. La donna gli chiede se ha una madre, e quando lui le dice che no, non ha una madre, piange mugolando dolorosamente come un animale ferito, e lo spettatore si chiede per chi stia piangendo. Forse piange di pena per questo innocente che non avrà una madre a difenderlo come ha fatto lei col suo Do-joon; forse piange di pena per un innocente che in quanto orfano è costretto all’alterità e alla solitudine senza diritto di difesa, nemmeno di verità, di esistenza; forse piange anche per sé che si sente costretta a un nuovo crimine per salvare il figlio.

È difficile provare simpatia per questa donna, eppure non si può fare a meno di sentirsi turbati dal suo amore spietato. La vediamo piangere disperatamente, davanti a questo infelice che lei sta condannando, ma non assistiamo a tentennamenti; la legge della passione materna che non ammette differenziazione si nutre di morte: del pensiero, della coscienza, della vita. Non fosse che per quel pianto di fronte alla vittima innocente, potremmo parlare di una totale insensibilità della madre al mondo esterno: chiusa nel bozzolo della sua maternità come in una gestazione eterna, la sua crudele efferatezza che contrasta con l’aspetto fragile e privo di risorse appare come una strategia di sopravvivenza. D’altra parte la società che il regista ci rappresenta non offre margini di contenimento e nemmeno solidarietà a persone che appaiono più di altre deboli, emarginate, sole: in questa giungla di sentimenti vince il più arcaico e potente, questo spaventoso amore (ma è la parola giusta?) materno che non conosce pietà o legge morale fuori del suo universo simbiotico di madre/figlio.

E lui? Il figlio ritardato, l’innocente alla Dostoevskij, quanto è veramente inconsapevole, e dunque innocente? Affiorano durante la reclusione in carcere, mentre la madre tenta di forzare la sua memoria fragile per ricostruirne la prova dell’innocenza, ricordi tremendi che anche lei aveva cancellato sulla loro comune storia, in cui il delirio simbiotico aveva già cercato la deriva della morte. Alla fine, a dramma compiuto, le porgerà la scatoletta degli aghi che lui ha ritrovato sulla scena del crimine materno, e con il suo sguardo enigmatico da cervo che non lascia trapelare pensieri sottintesi dice poche parole ambigue: “Devi stare più attenta”.

Le ultime scene mostrano la madre che, conclusa la sua missione, si concede una gita con altre madri, e mentre il pullman si avvia, affonda decisamente un ago in una coscia, fiduciosa nel potere miracoloso dell’agopuntura di far dimenticare il dolore, come la fumeria d’oppio in cui si rifugiava il giovane Noodles di “C’era una volta in America”.

Ancora una volta, dunque, il trionfo del pensiero delirante onnipotente: la manipolazione/negazione della realtà.

1Kristeva J. La maternità oggi. Symposium Reves de femmes. Grand Amphitheatre del Museo Nazionale di Storia Naturale. Parigi, 28.10.2005.

2Kristeva J (2000). Melanie Klein. La madre, la follia. Trad. it., Roma: Donzelli, 2006.