Il Disturbo Oppositivo Provocatorio.

Chi provoca chi?

Introduzione

maria luisa algini

Nella nostra ricerca di gruppo, che dura da più di una decina d’anni coniugando la clinica con la teoria psicoanalitica, abbiamo sentito quasi subito la necessità di condividere la complessità di situazioni di bambini e adolescenti che arrivano in consultazione e poi in psicoterapia per un disturbo “oppositivo-provocatorio”.

La diffusione sempre più grande di tale patologia apre un ampio spettro di questioni teoriche e tecniche. Quali dinamiche intrapsichiche e intersoggettive alimentano una sintomatologia per la quale spesso anche la scuola chiede interventi diagnostici e psicoterapici? Quale l’iter per la valutazione del disturbo, che permetta di distinguere tra un’oppositività fisiologica connessa con passaggi della crescita e la patologia vera e propria? Cosa viene in luce della relazione tra il bambino, i suoi genitori, l’ambiente di vita e le caratteristiche del nostro tempo? Quali le peculiarità dell’intervento psicoterapeutico offerto dalla psicoanalisi?

Il tema, estremamente complesso, ci è parso molto intrigante anche per gli sviluppi osservati nell’arco dell’età evolutiva. Mentre nell’infanzia i sintomi sono espressi soprattutto attraverso l’agire oppositivo, ci è sembrato che nell’arco della crescita avvengano delle trasformazioni. L’agire può intensificarsi dando luogo a disturbi della condotta e dell’antisocialità o modularsi virando verso disturbi del pensiero con caratteristiche ossessivo-compulsive, come vedremo in alcuni casi clinici.

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio è classificato secondo categorie proposte dai Manuali di riferimento internazionali (DSM 5, ICD 10). Il lavoro iniziale di Sara Cerracchio e Laura Pizzo – che con altre autrici hanno competenze specifiche sulla valutazione – si occupa appunto degli strumenti utilizzati per differenziare i tratti oppositivi dal Disturbo Oppositivo Provocatorio vero e proprio; evidenzia quali siano i passaggi necessari per ottenere una certificazione “ufficiale”, utile anche per far avere al bambino e alla famiglia tutti gli ausili necessari. Nell’articolo si accenna infine alla valutazione neuropsicologica e a come ciò che emerge da un altro “campo di osservazione” possa offrire strumenti utili alla stessa psicoterapia psicoanalitica.

Il panorama del disturbo, però, va ben oltre i casi valutati e certificati che richiedono l’attivazione di una pluralità di interventi a garanzia e sostegno della famiglia e della scuola. I genitori molto spesso chiedono l’aiuto della psicoterapia per sintomatologie oppositive altamente disturbanti, che esulano da necessità di certificazioni. La maggior parte dei lavori del focus riguarda situazioni del genere.

Peraltro, lavorando nell’ottica psicoanalitica, ci rendiamo conto che la nostra stessa valutazione psicodinamica di questa patologia e poi l’intervento psicoterapeutico sono sotto il segno del paradosso.

Se la psicoterapia si può pensare come un viaggio per arrivare a una trasformazione dei sintomi, l’indispensabile “diagnosi” e l’eventuale certificazione si possono paragonare a una stazione che permette soltanto di scegliere mezzi e direzioni verso cui partire. In altri termini, una valutazione psicodiagnostica è fondamentale, fornisce indicazioni importantissime e imprescindibili, ma le situazioni che incontriamo nella clinica e poi nella cura non sono mai lineari. Da un lato abbiamo bisogno di dare forme e collocazioni in categorie a fattori intrapsichici e intersoggettivi complessi e dirompenti che intuiamo condensati nei sintomi. Dall’altro cogliamo la provvisorietà delle categorie stesse: non possono essere un’etichetta che definisce tutto, caso mai – appunto – una stazione di partenza che consente di decidere un percorso, una bussola che può indicare una direzione. Nei casi che presentiamo siamo consapevoli che per quel quadro sintomatologico avremmo potuto usare anche altre categorie, a cominciare dalle classiche: nevrosi, psicosi, borderline.

Il complesso viaggio nella psicoterapia, poi, è un’esperienza che va ben oltre la partenza, ha i suoi ritmi, le sue difficoltà, punti di sosta e di arrivo. E rivela un secondo paradosso.

Come in altri orientamenti, anche nel nostro l’obiettivo è la scomparsa dei sintomi oppositivi: il paradosso riguarda come arrivarci, e con quali tempi. Perché, pur facendoci carico del desiderio di una rapida risoluzione, non pensiamo ci si possa arrivare attraverso prescrizioni per eliminare il sintomo. Esso si è paradossalmente formato come via d’uscita da nodi conflittuali dolorosi, intrapsichici e relazionali, che occorre individuare, decifrare, districare, sciogliere. Il paradosso dell’esperienza psicoanalitica, sempre, ma particolarmente in questa patologia, sta nel dover tenere insieme l’urgenza e la pazienza. Si lavora con bambini, adolescenti e genitori, per individuare i blocchi e le collusioni patologiche ma anche per attivare risorse per affrontarli e maturare cambiamenti che permangano.

Questa la prospettiva dei vari scritti del focus.

Data la vastità del panorama costituito dalla patologia oppositivo-provocatoria, il tema si svilupperà su due numeri della rivista.

Nella prima parte, qui proposta, dopo il lavoro sulla valutazione, Rossana Garau delinea un quadro dell’ambiente genitoriale, inteso in senso winnicottiano, in cui si giocano i sintomi dei bambini e ragazzi oppositivi. Esso appare spesso caratterizzato da difficoltà separative, mancato superamento del complesso edipico, con conseguente resistenza a includere il terzo, tendenza a instaurare legami simbiotici e tirannici con i figli che si oppongono. Si possono così intravvedere alcune qualità dei movimenti intrapsichici che determinano le risposte degli adulti alle richieste di aiuto dei figli. Evidente quanto sia arduo definire chi provoca chi e quali livelli psichici siano in gioco nella sintomatologia.

La consultazione di cui scrive Laura Pizzo verte sulla situazione di un bambino di venti mesi che rifiutava categoricamente il cibo. Interrompere il nutrimento è un gesto estremamente violento auto ed eterodiretto, segnala un trauma profondo nella sfera narcisistica e una grave carenza di un ambiente deludente. L’onnipotenza creatrice sostenuta dalla relazione affettiva con l’altro sembra virare verso un’onnipotenza distruttrice che attacca le proprie funzioni per attaccare in sé l’altro. La consultazione può offrire quell’ambiente affettivo che, permettendo l’incontro tra genitori e bambino, favorisce il riappropriarsi di funzioni vitali e di una cura genitoriale.

Il piccolo paziente di Sara Cerracchio sembra godere della propria “cattiveria” svelando così il profondo legame tra il suo mondo interno e quello dei genitori. Lo scritto mette in luce il legame profondo tra la psicopatologia della coppia e la sintomatologia del figlio, per cui nella relazione genitori-bambino il controllo e la subordinazione dominavano la scena e venivano agiti e subiti da tutti. Evidenzia, inoltre, il contributo specifico dell’intervento psicoanalitico, sia per quanto riguarda la comprensione dei fattori che hanno concorso alla formazione del sintomo sia rispetto agli strumenti utili per la cura.

Con una bambina di cinque anni, Stefania Tambone focalizza come le dimensioni intrapsichica e intersoggettiva si intreccino, dando vita a una dipendenza reciproca madre-bambina di natura sado-masochistica. La bambina “si fa oppositiva” nel tentativo di salvaguardare il Sé da ulteriori intrusioni ambientali, e “provocatoria” quando agisce la parte di Sé che si identifica col genitore sadico. Per la madre, la figlia idealizzata che doveva essere un sedativo del proprio dolore, si trasforma nel “demonio”, nel “torturatore” che può solo rigettare da sé. In questa cornice, l’oppositività è sintomo, cioè azione e comunicazione scomposte di stati di malessere profondo e, nel contempo, è tentativo di salvare il Sé.

Nella seconda parte del focus, che sarà oggetto del prossimo numero, ci soffermeremo sulle trasformazioni dell’agire oppositivo in alcuni casi clinici, o seguiti dall’infanzia all’adolescenza o segnati da una grave disabilità. Il viraggio ci sembra in direzione di un tipo di pensiero con caratteristiche di ossessività, onnipotenza e rigidità, a copertura, spesso, di vissuti depressivi.

Un lavoro sulla supervisione clinica, quale spazio terzo di simbolizzazione, consente di mettere in luce altri aspetti del disturbo oppositivo provocatorio, grazie a quanto si può cogliere nelle dinamiche di transfert.

Date la complessità della materia e la scarsità di letteratura specifica, nel proporre questo focus ci ha accompagnato l’immagine di Freud nel “caso Dora”, del materiale clinico come un fiume non navigabile, irto di rocce e di ostacoli che obbligano a un procedere cauto ed impervio. Siamo consapevoli di aver proposto riflessioni limitate e provvisorie, ma certe che solo osando si potrà maturare altro.

Maria Luisa Algini

Psicologa, Membro Ordinario SIPsIA

Docente con funzione di training Istituto Winnicott

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