Il Disturbo Oppositivo Provocatorio

Introduzione

maria luisa algini

Nella prima parte del Focus sul Disturbo Oppositivo Provocatorio, pubblicata sul numero 4/2024, dopo una messa a punto sui percorsi di valutazione psicodiagnostica nel pubblico e nel privato, abbiamo presentato alcune esperienze cliniche che, quali piccole tessere di un mosaico, potevano comporre una figurazione di insieme sul disturbo e la sua complessità. Sono riflessioni inconcluse, che intendono sollecitare ulteriori contributi sulla genesi e le dinamiche attive in questo tipo di psicopatologia, e portano sicuramente l’impronta del travaglio del “ricercare” clinico-teorico sul tema nel nostro gruppo di studio.

Nel corso dell’esperienza gruppale, infatti, ci siamo trovate continuamente davanti a nuovi allargamenti dei campi di esplorazione, quasi stessimo maneggiando un materiale sfuggente e plastico, che assumeva connotazioni sempre multiple e cangianti. La riflessione su tale andamento e l’insieme di “macchie cieche” che sperimentavamo nel procedere facevano sorgere interrogativi sulla relazione tra le nostre difficoltà, lo stato dei pazienti e le loro capacità di simbolizzazione. Se da un lato c’era da ipotizzare una sorta di “contagio” transferale, dall’altro cresceva la necessità di sostenere la nostra capacità di pensare con un intenso va e vieni tra il materiale clinico e la letteratura psicoanalitica.

Poiché specificamente su tale psicopatologia è stato scritto pochissimo, cosa già significativa, abbiamo tentato di approfondire alcune delle dinamiche più ricorrenti nella clinica: la dipendenza e le sue complesse radici nello sviluppo emozionale primario; il narcisismo, l’aggressività, l’identificazione con l’aggressore; il sadomasochismo e la perversione, la configurazione edipica, l’incestuale. Sulle dinamiche del “pensare” sottostante l’agire abbiamo cercato l’aiuto di Bion, mentre le somiglianze tra l’oppositività e il pensare ossessivo ci hanno portate ad approfondire Freud e i meccanismi di difesa proposti ne L’uomo dei topi, ripresi e sviluppati anche nel Focus di questa rivista sulle Configurazioni ossessive in adolescenza (4/2014). Una parte di tale bibliografia è citata negli scritti del Focus, sia nel numero attuale che nel precedente (4/2024).

La maggioranza dei lavori della parte già pubblicata poneva l’accento sull’ambiente in cui si sviluppa il sintomo e su situazioni di bambini nella prima infanzia e in età di latenza in psicoterapia psicoanalitica. In queste fasi sembra prevalere l’agire oppositivo. Esso non scompare certo con la crescita; può anzi intensificarsi al punto da diventare disturbo della condotta e dell’antisocialità. Di tali derive, però, che richiedono interventi plurimi, anche con il coinvolgimento di una rete di servizi sociali, non abbiamo potuto occuparci.

Questa seconda parte del Focus, attraverso esperienze di psicoterapia con adolescenti, alcune iniziate già nell’età infantile, cerca di riflettere su possibili evoluzioni del sintomo e su aspetti del funzionamento psichico sottostanti l’agìre. Con la crescita, infatti, ci sembra non solo che l’oppositività prenda forme diverse che si intrecciano, in vario modo, con le dinamiche adolescenziali, ma anche che la maggiore capacità di parola e di introspezione evidenzi più chiaramente dinamiche e fantasie inconsce, nei bambini già intuibili ma spesso occultate dall’eccesso di agiti.

Si palesa con più forza, per esempio, il fantasma della colpa: l’agire oppositivo provoca intensi sentimenti di colpa, che, per cercare espiazione attraverso la punizione, scatenano nuovi agiti, e il circolo della ripetizione non ha fine. Spesso si fa più chiara la presenza di un SuperIo sadico e del godimento nel far soffrire l’altro, come tentativo sia di punirlo che di tenerlo legato a sé. A volte, l’oppositività serve di copertura e di contrasto a forti sentimenti depressivi, ma anche a conflitti relativi all’esplodere dell’istintualità sessuale. Diventa più chiara la difficoltà a pensare, ad apprendere dall’esperienza, a regolare l’azione attraverso il pensiero. Per dirlo con Freud, a “usare il pensiero come azione di prova”.

Come si presenta l’oppositività nel transfert? Si chiede nel suo lavoro M. Liliana Iorio. Essa sembra esprimersi tramite modalità che interessano diversi ambiti dello sviluppo: corpo, movimento, linguaggio, pensiero.

“Mediante stralci di psicoterapie – scrive – proverò ad evidenziare i passaggi fra queste modalità e come a volte confluiscano l’una nell’altra, sia nel corso della psicoterapia che in fasi differenti dello sviluppo (infanzia e adolescenza)”.

L’articolo di Eleonora Di Lucia e Loredana Sateriale si interroga sul legame tra una grave disabilità fisica e i sintomi oppositivo-provocatori in una adolescente. Cosa può coprire il rifiuto di tutti i mezzi che potrebbero consentire una pur parziale autonomia? La ragazza sembra rifugiarsi in un rapporto ossessivo con un oggetto feticcio che scatena rifiuti dell’ambiente e altrettante controreazioni. L’oppositività, in questa paziente, prende la forma di un pensiero rigido e ripetitivo, che nasconde e segnala anche un blocco nella percezione del corpo sessuato e nella crescita emotiva e relazionale; copre, soprattutto, il drammatico lutto di una madre che stentava ad accettare la sua disabilità.

Sia pure diversamente, anche nel lavoro di Elena Bossaglia su una ragazzina alle soglie della pubertà, che ha subìto il lutto del padre, emerge la funzione del sintomo oppositivo come modo di tutelarsi dalle angosce depressive. Esse da un lato sono relative alla perdita reale, dall’altro a precoci cicatrici narcisistiche che ostacolano il movimento di soggettivazione per una rabbia difficilmente integrabile. Il viraggio verso sintomi ossessivi che avviene nel corso dell’adolescenza, sembra segnalare una fragilità e, a tratti, il rischio di intense perturbazioni dell’area transizionale.

Le riflessioni di Maria Luisa Algini su alcune psicoterapie, si intrecciano con quelle relative all’esperienza di supervisione. La connessione tra le due esperienze permette di riprendere l’ipotesi che nelle vicende analitiche con questo disturbo sia in gioco una precarietà dello “spazio terzo” e della capacità di simbolizzazione, per cui si permane dentro la logica binaria: o vinci tu o vinco io. Si chiede l’autrice usando una metafora: come trasformare questo tipo di altalena in un ponte tibetano, che, pur essendo una struttura sospesa e oscillante, consente di transitare verso nuovi territori? Il senso di ogni esperienza psicoanalitica, come di ogni supervisione, è lo sviluppo di questa capacità.

Nella difficoltà della materia, che i nostri scritti evidenziano, ci ha sostenute la suggestione di Freud, in Al di là del principio di piacere, “di svolgere un’idea per vedere dove va a finire” (1920, p. 210).

Preziosa la conclusione del suo scritto, quando si consola con le parole di un poeta:

“Ciò che non si può raggiungere al volo, occorre raggiungerlo zoppicando… la Scrittura dice che zoppicare non è una colpa”.

Questo Focus è un tentativo di pensare pur “zoppicando”.

Maria Luisa Algini

Psicologa, Membro Ordinario SIPsIA

Docente con funzione di training Istituto Winnicott

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